Fondato sulla cultura un Paese che dà spazio ai giovani. Intervista a Giovanni Montanaro

Interista, veneziano, scrittore, avvocato: rigorosamente in quest’ordine. Giovanni Montanaro, talentuoso narratore di appena 31 anni con già alle spalle quattro romanzi pubblicati da importanti editori, sarà ospite di CartaCarbone festival letterario sabato sera (ore 21, auditorium Santa Caterina) con la sua ultima fatica, Tommaso sa le stelle, edito da Feltrinelli, in libreria da qualche settimana.

È stato scelto lui a sostituire Gustavo Zagrebelsky, colpito da un male di stagione, che ha rimandato a dopo la guarigione la presentazione a Treviso del suo saggio Fondata sulla Cultura (Einaudi, 2014) nell’ambito di un evento CartaCarbone post festival.

E la scelta su Montanaro non è stata casuale. È fondato sulla cultura infatti un Paese che dà spazio ai giovani di talento, in tutti i campi, letterario compreso. Idealmente tra Gustavo e Giovanni c’è un passaggio di testimone tra due generazioni meno diverse di quello che può sembrare, perché alle prese entrambe con la Ricostruzione della nazione, ieri atterrata dalla dittatura e dalla guerra, oggi sfinita dalla crisi economica e dalla corruzione di una parte della sua classe dirigente (sarà interessante il confronto su questo tema con Renzo Mazzaro autore del profetico I padroni del Veneto, Editori Laterza, 2012).

«È vero quello che dici – ragiona Montanaro – la mia generazione di scrittori è radicalmente diversa nei contenuti e nel mood da quella degli anni Ottanta e Novanta. A noi la leggerezza è stata tolta e abbiamo ripreso a scrivere storie che vogliono essere serie e impegnate, pur lontane da intellettualismi».

Quando dici “noi”, chi intendi?

I narratori nati alla fine degli anni Settanta, primi anni Ottanta, la mia generazione. Mi vengono in mente i casi editoriali di Paolo Giordano e Silvia Avallone. Ma anche a Marco Missiroli, Federica Manzon, Giorgio Fontana. Siamo persone molto “serie”, non so bene perché, ma credo proprio dipenda dal tempo che viviamo.

Cosa c’è di “impegnato” in Tommaso sa le stelle, che è, come la definisci tu stesso, una favola?

È vero, è una favola. È il tono con cui volevo scrivere una storia difficile, anche drammatica. È la storia dell’incontro tra Pietro, il custode di un deposito giudiziario nel mezzo della pianura padana, e Tommaso, un ragazzino arabo in fuga da una gang di malviventi che si nasconde nel magazzino. Non ho voluto entrare nella politica, nelle colpe, nella responsabilità. Mi sono accontentato di portare vicini due esseri della stessa specie, un adulto e un “cucciolo”, e farli diventare una piccola famiglia temporanea. L’impegno, secondo me, è quello di raccontare. Raccontare le persone, questi ragazzini che arrivano sulle nostre cose, la difficoltà e la naturalezza di accoglierli. L’impegno è quello di essere semplici, coinvolgenti, di parlare a tutti. Non credo nelle ideologie, e credo ai fatti oltre che alle idee.

Da romanzi ambientati all’estero e nel passato, dalla Fiandre alla Germania, sei tornato all’Italia contemporanea. Pensi che raccontare questo Paese possa aiutare a risollevarlo? Come?

Non lo so. Ma credo che questo sia un Paese che è raccontato male e poco. È un Paese che mi ha dato molto, che dà molto a tutti, dall’istruzione pubblica alla sanità quasi gratuita, dalle famiglie che fanno sforzi sovrumani alle imprese che hanno storie straordinarie, a chi va in mare a prendersi i migranti. È un Paese di cui spesso parliamo peggio di come è realmente. Certo, è un Paese che adesso non dà lavoro, quindi dimentica il futuro. È un paese anche di ladri. Ma è un paese, soprattutto, di cui dimentichiamo molti drammi; non mi viene in mente un solo romanzo sui terremoti e le alluvioni, che l’hanno segnato profondamente. Il compito degli “intellettuali”, o di chi vorrebbe fare pensiero, non è quello di unirsi al mantra politically correct di essere contro Berlusconi. Dovremmo andare ben più alla radice delle nostre contraddizioni. Altrimenti non guariremo mai.

C’è qualcosa di autobiografico nei tuoi romanzi?

In nessuno racconto di me, non credo che la mia vita sia così interessante da essere raccontata. Faccio l’avvocato, un lavoro che mi piace, che faccio con impegno e passione, ma niente di avventuroso. Però c’è qualcosa di me in ogni personaggio. A Pietro ad esempio faccio dire quello che ho detto io quando mi hanno fatto vedere e ho riconosciuto in cielo l’Orsa Maggiore: il Grande Carro… ma non ha le ruote?

Cos’è per te, giovanissimo, la letteratura?

La cosa più importante che ho. Quando leggo, quando scrivo, mi sento a casa. Provo un senso di appartenenza.

Francesca Nicastro

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