Avanza un sole esangue. È un triste mattino d’agosto, fresco per la brezza tenue che adorna di sale argentato le chiome degli elci. Il cielo si copre d’una solitaria nuvola caliginosa che scivola come un mantello d’ovatta sopra i paesaggi aridi delle colline smussate dell’Ogliastra. L’amore che provo per questa terra antica e mangiata dal sole mi sconvolge l’anima.
Laggiù, ai piedi dell’altura sopra cui mi trovo, accanto all’estremo azzurro del Tirreno, si erge una chiesetta graziosa, sebbene molto antica e privata d’ogni ornamento d’umana natura. Gli fa da modesta corte un intrigo di capanne e recinti, sfiancati dal vento e dalla
polvere, ugualmente ai poveri abitanti di quel villaggio gettato sul mare furioso. Sono abbacinata dai raggi luminosi del sole obliquo che si specchiano sulla superficie dell’acqua, agitata per i fugaci miraggi di spuma bianca, cresta delle onde. Esse vivono, inesorabili e grandiose.
I cespugli rigogliosi di euforbie odorose mi inebetiscono con il loro olezzo invadente, e tra questi immagino celarsi malefici serpenti biblici. È una fantasia che non credo debba discostarsi molto da quella di coloro che subivano l’effetto magico dei fiori, quando ancora i giganti calcavano queste terre primitive. Il panorama è mortale, caos e fornicazione eterna tra le fauci impietose del sole mediterraneo.
Sono invecchiata e non penso più al modo d’un tempo. Scrivo, a mano, su carte già segnate che sono alcuni vecchi appunti. Mi sono fermata prima ancora di partire, con la scusa dell’età, mentre gli amici che mi hanno accompagnata in questa gita estiva sono andati avanti, in avanscoperta, con la promessa di tornare presto. Siamo rimasti io, le mie poche cose, uno sgabello, l’automobile bollente e questo panorama selvatico. La scusa dell’età, in un senso, non è affatto una menzogna.
I miei anni in questo caso mi suggeriscono di sedermi a scrivere invece di camminare e non per difetto di forza nelle gambe, bensì per la naturale disposizione dell’essere umano che diventa anziano a controllare che nel pesante traino delle proprie memorie ci sia ogni cosa. Si sollevano, rimestano i ricordi, per sempre in disordine, e, pescando tra le immagini sfumate della vita, così l’identità viene tracciata, con sempre maggior incertezza. In giovane età ero perfettamente convinta di sapere chi fossi, oggi invece l’unica certezza che mi rimane è l’amore, per la natura impietosa di queste terre dalla bellezza drammatica e immortale al tempo stesso e per il popolo che le vive stentando.
L’altro giorno riflettevo e ho sentito di poterlo scrivere solamente ora, in questa sorta di misero diario dell’occasione, sul senso di colpa. Quello che non provo nei confronti della Natura, madre selvaggia, tanto meravigliosa quanto crudele e indifferente ai dolori degli esseri umani, e quello che invece provo nei confronti di quest’ultimi. Specialmente, nelle storie che ho scritto in vita, i miei personaggi, quasi sempre povere creature, prede destinate di pulsioni interne e del destino, non svestivano mai il proprio ruolo, come se fossero proprietari della stessa consapevolezza che io, narratore, possiedo del loro mondo interiore. Tutti loro danzano tra le sceneggiature forse indegne di un dramma rustico, seguendo un copione che adesso mi appare quasi prevedibile. Non rende giustizia al fato polimorfo del popolo sardo.
Così riflettendo sopra l’amore ed il senso di colpa, m’è sovvenuta una storia che mio padre Giovanni era solito raccontare per insegnare a me e ai miei fratelli a diffidare della sempre decantata onestà dei mezzadri. Una storia che giurava essere vera, perché il mezzadro in questione proprio a lui s’era rivolto per ottenere una somma di denaro non indifferente con l’intenzione di dare soddisfazione a un suo vizio, bizzarro oltremisura, perlomeno in cuore ad un uomo nato e cresciuto all’ombra dell’ulivo. Di lui non sapevamo il nome. Nella storia veniva chiamato Conch’e biancu, in virtù del suo capo imbiancato dai tanti malanni di una seppur breve vita. Aveva superato di poco la
trentina d’anni, metà dei quali aveva passati a scuotere alberi d’ulivo e a caricare sulla spalla destra pesanti sacchi ricolmi del grasso frutto, procurandogli un’asimmetria nella postura. Quando mio padre descriveva il modo in cui il mezzadro camminava utilizzava sempre una metafora di cui andava molto fiero: «incedeva a guisa di iato» e profittava dell’occasione per ricordare quest’unica nozione di grammatica a noi figli più piccoli. Dunque proseguiva con la storia.
Conch’e biancu s’era procurato un male cronico alle viscere per un suo piacere, forse unico al mondo, a concedersi di tanto in tanto un’oliva cruda. Sappiano coloro che hanno avuto il buonsenso di non assaggiarne mai una, che esse posseggono il sapore più amaro e infernale. L’idea che il contadino non solamente riuscisse a sopportarlo, bensì ad apprezzarlo, suggeriva a noi fratelli la sua natura come vicina a quella del pidocchio degli ulivi. Ci disgustava e affascinava al tempo stesso, ma un’altra ancora, e ai nostri occhi più sconcertante, era la sua passione.
Al giorno d’oggi non è poi così straordinario avere notizia di un lavoratore di fatica che in casa tenga una nutrita libreria. A metà del secolo scorso, contrariamente, i mezzadri minimamente si curavano di letteratura e biblioteche, ma Conch’e biancu era una rara avis. Come ci si aspetterebbe da un uomo di modesta cultura, s’interessava maggiormente all’oggetto in sé piuttosto che al suo contenuto. Un uccello raro, mezzadro lettore e collezionista di libri, pur elegantemente rilegati, ma pulciosi e macchiati dal tempo.
Mio padre spiegava che, grazie a questo interesse affatto comune tra i suoi pari, Conch’e biancu era da loro molto rispettato, come pure dai fattori, dai commercianti e dagli stessi proprietari terrieri. Sapeva leggere testi complessi e far di conto. Si raccontava pure che avesse composto e dedicato un sonetto alla figlia sedicenne di uno dei suoi amici dell’osteria, la quale, a sentirlo recitare sconnessamente, dicevano si fosse perdutamente innamorata, cieca all’aspetto malconcio dell’uomo. Ecco, Conch’e biancu, potendo ritenere veritiera ogni cosa raccontata da mio padre, non si prestava certo come rappresentante ottimo della media mezzadria, se non per la povertà di cui soffriva; moderata, non avendo vizi in egual misura agli altri mezzadri e manovali di Nuoro. Uno solamente, i libri, belli e costosi.
Le volte in cui ne era capace andava a trovare l’anziano antiquario giù in città e un giorno, tra le tante chincaglierie accumulate nel negozio, scovava un’ edizione meravigliosa dell’Orlando Furioso. Un manufatto di stupenda fattura, rilegato in pelle di capra e impreziosito di magistrali illustrazioni. Tale libro doveva esser suo ad ogni costo ma, si può ben credere, esso era decisamente superiore alla limitata disponibilità economica di Conch’e biancu. Prima tentò di abbassare il prezzo, poi propose il baratto, ma nulla. Eccolo correre da mio padre, per chiedere un prestito che difficilmente sarebbe stato capace di ripagare. Al no, tentò in tutti modi di convincerlo, promettendo di lavorare più duramente, per più ore, restituendo una percentuale maggiore del raccolto. Ancora non bastava per pareggiare il valore indicibile di quell’edizione del Furioso e fu questo muro insormontabile il principio di una follia che altri uomini come lui avevano espresso per ragioni quasi unicamente legate al matrimonio.
Tornò un’ultima volta dall’antiquario, facendo proposta del proprio corpo come garanzia, dunque di quello della figlia ancora vergine, venendo sdegnosamente rifiutato dal vecchio. Il senno aveva abbandonato la testa candida del mezzadro e l’ennesimo fallimento lo aveva reso un vagabondo inebetito e rantolante.
Con occhio spalancato e inquisitorio vagava ore ed ore per le vie adiacenti al negozio, passandovi di fronte almeno tre o quattro volte a giornata, dimentico del proprio mestiere
e rendendo piuttosto inquieto l’anziano mercante di logorume, che aveva ridotto da tre a due le quiete ore passate a sonnecchiare dietro alla polverosa scrivania. La mite figliola del folle mezzadro di tanto in tanto lo inseguiva impotente, pregandolo di tornare a casa, ma non c’era modo di distrarlo dalla sua mania. S’era fatto egli stesso una sorta di Orlando, alla disperata ricerca dell’oggetto del desiderio, incapace di desistere e tornare sui propri passi.
Seguitavano le settimane, ma per Conch’e biancu pareva non dovesse esserci nessun Astolfo a recuperargli il senno. Mio padre s’era convinto a cacciarlo dalle nostre terre, se non fosse accaduto che un giorno, con gran sorpresa di tutti coloro che lo conoscevano, si ripresentò al poggio degli ulivi, scompagnato d’alcuna manifesta follia. Senza nulla dire, riprese a lavorare e tutti credevano che fosse finalmente rinsavito. Lavorò per un anno ancora e poi andò via da Nuoro, chissà dove. A nessuno interessava.
Due anni più avanti uno dei miei parenti, non ricordo chi, incuriosito da questa storia, si recò dal vecchio antiquario, curioso di vedere questa mefistofelica edizione del Furioso. Ebbene, la cercò il vecchio e la cercarono insieme, ma solamente tra i volumi esposti superficialmente, senza sprecare fatica nello sventrare metodicamente le grosse librerie e abbattere le torri di libri del magazzino. D’altronde le cose importanti erano già state messe in bella vista da anni. Il libro dunque non si trovava più. Era come svaporato, ma che la colpa fosse del libro stesso, fuggito tra i suoi simili nelle profondità inaccessibili dell’ampia collezione, oppure dell’inquietante mezzadro mangiatore di olive crude o ancora, di un fantasma appassionato di letteratura, poco importava. Il vecchio antiquario era molto ricco per nascita e aveva aperto bottega solamente per poter dire di lavorare e non vergognarsi. Il libro, per me, lo aveva rubato Conch’e biancu ed era proprietario certamente più degno dell’opera di Ariosto, almeno per affinità con il protagonista.
I miei amici stanno tornando e vorranno scendere al villaggio per cercare qualche forma di formaggio buono da portarsi a casa. Chiederò a qualcuno degli abitanti se per caso sappiano di un loro padre o di un loro nonno che fosse collezionista di libri.
Alfredo Baggio