Autobiografie impossibili – Jack London

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Giungo alla pace arcadica dei miei ultimi anni avendo già perso i sogni appassionati della giovinezza. La fiamma che consumava il mio spirito, obbligandomi ad abbandonare ogni porto e a salpare nei mari in tempesta, si è infine spenta al vento fresco della convalescenza campagnola. Gli ideali di avventura che mi guidarono oltre tutti i confini si sono estinti assieme alle ultime illusioni e la voglia pazza di sapere, di conoscere e di svelare le forme nude della Verità si è arenata su spiagge lontane, e del suo cadavere si pascono i gabbiani superbi. Sulla vita che ho sempre sfidato a viso aperto si è srotolato un tappeto grigio di polvere e cenere. Il successo mi nausea, il denaro mi è indifferente; ascolto le parole dell’arte e della cultura come ascolto le manfrine ipocrite di coloro che le venerano. Solo la lotta mi è rimasta, un tempo asservita alla mia sopravvivenza, poi regalata alla causa del Popolo e dell’umanità pura, ora inerme vagabonda che cerca di distrarsi cavalcando il pomeriggio tra i boschi. 

È una inveterata relazione con la morte la mia, onnipresente sentore che alla fine è riuscito a rabbuiare le cose grandi e piccole di tutti i giorni. Io stesso ho ucciso tutto quel che ho toccato. Avventurandomi senza ritegno nel mondo, concedendomi ai flutti dell’improvviso senza mortificarmi con le remore, ho finito con l’immedesimarmi col bruto volgare che sonnecchia nei miei abissi personali. Non parlo di una violenza fisica, dei calci, delle spinte e dei cazzotti che si assestano i marinai ubriachi sulla banchina del porto, ma della violenza dell’amore, della brama famelica della passione, che si avventa su quel che l’appaga e la divora pezzo dopo pezzo. Ho sciupato la mia temerarietà tra le taverne e i bar, bevendo copiosamente in compagnia dei peggiori pirati e contrabbandieri. Ho smorzato la mia sete di conoscenza ingurgitando libri con la stessa cupidigia con cui ho ingollato litri e litri e litri di veleno. Ho infine distrutto il mio desiderio di grandezza donando al pubblico i miei saggi e i miei romanzi. 

Cosa mi rimane da mangiare, ora che ho mangiato ogni cosa e ho la pancia (non l’anima, che se la citassi ne risulterebbe una figura retorica poco viscerale) sazia e rigonfia? Io stesso, che la morte l’ho sempre osservata con distacco, quasi con alterigia, e alle volte l’ho pure accarezzata voluttuosamente, sono divenuto suo emissario. E ora comprendo, cullato dalla brezza lieve del tardo mattino, circondato dalle fronde verdeggianti del paradiso, che in realtà ho smesso di cercare perché ho smesso di voler uccidere. Il mio compito è finito: posso provare a smuovere la coscienza del popolo, certo, e propormi come uno dei tanti araldi che han deciso di sospingerlo; posso prendermi cura di coloro che riescono ancora ad amare, e non sono malati come me; ma mi è preclusa la via del ritorno e, anche se quel che ho fatto ora mi disgusta, sono costretto a conviverci finché mi rimarrà fiato per annaspare. 

In verità però, sto anche per posare la penna. Le mie mille parole giornaliere ancora vogliono essere scritte, certo, chiedono ancora a gran voce di scendere sul palco del mondo, ma l’ombra della futilità, che è poi la tentazione del non-fare, sovrasta la mia testa come un’onda chilometrica che mi tortura rimanendo sospesa. Se s’infrangesse, del resto, si spargerebbe ovunque, la terra l’assorbirebbe, il cielo verrebbe sgomberato e il sole tornerebbe a splendere su di me, riscaldandomi. Ma quell’onda non si infrangerà mai – e non ho imbarcazioni sufficientemente capaci per scavalcarla. E come poter scrivere se si rimane sotto un’onda oscura del genere, se non si vede dove si scrive né cosa si scrive? Ogni cosa è grigia per me, sono ammalato di relativismo, nella mia filosofia esistono solo le sfumature. E allora mi resta forse il sogno, il volo, che non sono speranze, ma l’esatto contrario: spasmi involontari causati dall’annegamento.

In fondo, ora comprendo. Ho sempre vissuto diviso all’interno. C’è una frattura fondamentale nel mio essere che mi esclude la pace e mi obbliga al viaggio. La vedo dappertutto ora: nel mio tragico alter ego che è Martin Eden, nella mia coscienza sogghignante chiamata John Barleycorn, nel mio tentativo romantico di immedesimarmi nei lupi, nella mia ultima volontà di vagabondare nelle stelle. Sono prigioniero della carne, sono spezzato dalla mia fantasia, sono marchiato dalla morte. La morte, sì, la morte disturbante che dona insonnia e conoscenza definitiva – è stata lei a spingermi a scrivere! La morte e la scrittura hanno una relazione segreta ma invincibile: la morte annulla i significati e svuota i valori, e la scrittura cerca di incasellare il senso in frasi compiute, perché permanga al di là dell’incenerimento delle cose. Ma infine la scrittura fa il gioco della morte perché per catturare quel significato uccide la vitalità incoerente del mondo, mentre la morte fa il gioco della scrittura perché il suo operato infiamma quest’ultima col desiderio di sopravvivere.    

E poi accadde che, mentre scrivevo queste parole funeste, mi addormentai, forse colpito alla nuca da un fulmine invisibile. Subito un sogno comparve nell’oblio. Ma non ero io che sognavo. Avevo l’impressione che quel sogno non fosse scaturito da me, ma che fosse stato imposto da un’altra volontà. Era come se una forza esterna avesse collocato quel sogno nella mia anima, costringendola a viverlo. Mi sentivo posseduto, la mia identità era stata schiacciata in un angolo e lì imbavagliata perché guardasse. Correvo a perdifiato sulla neve gelida; ansimavo e il mio respiro si condensava in fredde nuvole bianche. I miei sensi erano allertati, il mio corpo vibrava di energia. In me fluivano tutti i fenomeni del bosco: gli odori pungenti, i richiami innamorati, lo sfarfallio della luna, il fruscio degli abeti e gli scricchiolii della neve. 

Accanto a me correvano altre ombre: affusolate, acuminate, che sfrecciavano in avanti evitando i pericoli e gli alberi rovesciati. Domandai loro chi fossero ma non badarono alle mie richieste. In cuor mio sentivo che erano come me, altre anime selvagge dal cuore insofferente, spiriti boschivi incapaci di rinunciare alla lotta. Insieme, branco di ombre slanciate che saettano nel manto innevato di Madre Terra, giungiamo sul dirupo che sta al confine del mondo e si affaccia sull’infinito siderale. Piangiamo la sorte dei nuovi nati, gioiamo per coloro che hanno vinto, confortiamo gli sfortunati che hanno perso, i nostri canti si levano tanto in alto da commuovere anche la luna. Ed è lei che decide infine di abbandonare il triste giaciglio in cui venne confinata. Si agita, si scuote, finalmente si libera dalle lenzuola che la incatenavano al talamo del buio infinito e accorre verso di noi, rotolando piena di grazia. 

Noi ombre continuiamo il nostro canto, ululiamo anzi più forte perché la luna non sbagli direzione. Ma ahimè, il buio, marito geloso, si accorge della fuga e in un attimo riacciuffa la luna e la trascina in recessi del suo regno ancora più lontani. Le ombre sul ciglio del mondo si disperdono e ritornano a nascondersi tra la neve, che presto sorgerà il sole e i loro corpi riacquisiranno il volume e le fattezze giornaliere. Ma io rimango sul ciglio, ad osservare gli occhi brillanti del buio geloso. C’è una sola ombra, oltre a me, che è rimasta. Si avvicina lentamente, le zampe che affondano soavi nella neve. Mi fissa, mi annusa, ascolta i miei battiti e lecca il mio pelo. Sembra voglia dirmi qualcosa e io per un attimo mi distraggo dalla vista vertiginosa dell’universo. Mi ha chiamato per dirmi che fu lei ad architettare quel sogno: fu lei a scolpirne le fattezze e a trascriverne il significato. “Come tanti altri, tu sei stato scelto”, mi disse, con la voce rognosa di una lupa, “affinché la grandiosità dell’avventura potesse continuare a vivere nel mondo”. 

A quel punto, dall’abisso che si ergeva di fronte a me, emerse la luce brillante dell’alba, che invase il mio sogno e gli diede fuoco. Il sole risalì il dirupo, si presentò colossale davanti ai miei occhi increduli e annientò le profondità del buio. Mi risvegliai di soprassalto che fuori però era notte. Non ebbi bisogno di riflettere sul sogno, sapevo già che cosa significava. Qualcosa, o qualcuno, mi aveva concesso una grazia. Forse la stessa divinità che mi aveva marchiato con la morte prima che io abbandonassi il cielo e nascessi. Forse ha voluto mostrarmi il senso del destino che aveva scelto per me. Sì, ed ora ho compreso il dono portentoso che mi è stato concesso: che in me è stata depositata l’anima di un titano e che io sono sempre stato più grande della vita.    

 

— Leonardo Albano —

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