Autobiografie impossibili – Jorge Luis Borges

jorge-luis-borges

Sento d’avere gli occhi rossi. Mi prudono. leri ci vedevo ancora un poco oggi invece sono vittima del nero. Ma io sono nato quando è nata la parola. Quando un poeta, il primo, gridò il mio nome con lo sguardo volto alla costellazione dell’Orsa. Le steppe battute dal vento, lo cantavano già da millenni. Quando mia madre ha pronunciato il mio nome io già esistevo, seppur cieco, sordo. Inetto a vivere. Mettiamo da parte la metafisica. Si può tenere comodamente in tasca mentre amministro la disperazione. È un dipartimento caotico quello adibito alla gestione e soluzione dei mali psichici. Un labirinto di specchi o una scacchiera solamente bianca o solamente nera. 

Posso fare mosse unicamente contro me stesso. Ora si richiede di operare una strategia volta alla difesa, che di guerre intestine e fuoco amico ne ho davvero abbastanza. Sono cieco. Mi chiedo se mio padre provasse lo stesso rivolgimento viscerale che percepisco in questo momento. Così familiare quanto indesiderato. Non certo una magia nuova, almeno per il sottoscritto. Mai però s’era presentata tanto fantasmagorica ed indomabile. Questa magia, nonostante conoscessi ormai bene i trucchi del mago, mi sembrava vera. Mi chiedo se mio padre provasse la stessa inestinguibile ansia per la scomparsa del mondo. Se non lo vedo può davvero esso vedere me? Dove mi trovo? La memoria inizia a dare vita a strani intrecci. Non ricordo più come prima la stanza in cui mi trovo e se sia la stessa nella quale mi sono risvegliato. Sento i fischi della strada salire dalla finestra, mi 

sfidano ad affacciarmi. A guardare nel nero e vedere se riesco a individuare lo spazio. Ho sentito qualche tempo fa di un non vedente che, schioccando la lingua, riesce a definire e comprendere il circostante grazie all’eco. E poi tutte le leggende sui sensi aumentati dei disabili, particolarmente quelli che difettano la vista. Per ora ammetto di sentirmi più vicino allo spirito delle cose, qualsiasi esso sia. Mi pare di sentire i fulmini nel cielo carico di pioggia nonostante il temporale sia passato con la notte. La mattina profuma ancora di elettricità e dell’odore della pioggia che pulisce le strade. 

Si conserva più memoria nel naso? 

Forse. 

I fantasmi della realtà che salgono dalla strada, vaporosa per un sole svizzero stranamente mediterraneo, mi riportano con la fantasia al me pubescente per la prima volta in questa città. Non amavo davvero questi luoghi, perlomeno in principio, ma ben presto mi accorsi del loro fascino segreto. La segretezza appunto è uno dei caratteri fondanti di questo paese e al momento del disvelamento, se possibile, quello che si nasconde nelle profondità della montagna possiede ulteriore mistero. 

Con grande fatica ero riuscito ad ottenere occhi insensibili a sufficienza per guardare con gratitudine i suoi paesaggi. E vorrei anche dire che sento la mia attuale presenza a Ginevra come frutto di un destino assecondato, un destino immaginario e reale, quatto e silenzioso nel buio del mio cranio. Sono cieco per Dio. 

A condurmi è solo la parola, essa esiste dentro di me come al di fuori, ed è un sacro scherzo che io non possa ormai più leggere da tempo. Un vero calvario per una persona che ama i libri quanto me. Certamente il dolore aiuta a crescere, ma ormai nemmeno Golia potrebbe nascondermi le sue calvizie. 

Se vista da lontano la torre potrebbe sembrare una profonda fessura sul costato della montagna. 

In rue du Rhône gli schiamazzi si fanno sempre più rumorosi e il tumulto ovattato di questo vociare scomposto toglie le redini al mio pensiero. Sono un foglio di carta velina in una tempesta di colori cangianti. Volti e memorie si sovrappongono, trascinati dalla piena inesorabile del coro di passanti. Chiedo aiuto a me stesso affinché mi sia restituita la metafisica. 

In collegio, in rue Theodore de Beze, risolvevo ogni problema con una bella storia. Un racconto sublimava ogni male e mi disponeva ben volentieri agli obblighi accademici. Farò ancora così, chiederò ad Estela di leggermene molte, di non fare economia della sua vena narratrice. La cecità di lei mi ha lasciato la memoria più graziosa. Non mi spiego il perché, ma più mi mancava la vista, più l’immagine che conservavo di lei diventava quella meravigliosa dei vent’anni. 

Due uomini hanno iniziato una discussione sotto alla finestra della mia camera. 

Litigano per una scommessa apparentemente scorretta, perché, a detta di uno dei due, l’altro già avrebbe conosciuto l’esito prima ancora di lanciare la sfida. Avrei davvero gradito poter recriminare equivalentemente in una discussione di cui fui io stesso protagonista. Desiderio di uno sciocco marinaio innamorato della polena avevo pensato che pure il mio interlocutore nella storia che voglio raccontare fosse in malafede, ma ero io che stavo invecchiando e lui uomo di memoria solida. 

Al tempo, sei o sette anni prima della mia ordalia come guardiano di pollame, possa Peron cadere dalle scale, facevo il bibliotecario. Una professione umile, ma che regalava notevole soddisfazione alla mia bibliofilia. Non sono mai stato una persona particolarmente loquace e nemmeno particolarmente taciturna. Spendevo il mio tempo tra letture e catalogazioni inframmezzando talvolta il lavoro chiacchierando con i frequentatori del luogo. Uno di questi era il mio preferito. Luis Romero Rossi. Un giovane uomo sulla trentina, appassionato di storia. Insieme a lui e altri uomini si discuteva di mitologia anglosassone. Nello specifico, si può ben immaginare, del Beowulf. Il gioco era quello di ricordare le qualità mostruose che descrivevano il mostro Grendel e mi rammarica riconoscere che Rossi quel pomeriggio fosse meno smemorato. Anzi, vantasse una memoria elefantina, tanta da lasciarmi svergognato di fronte agli amici della biblioteca. Lui era un Funes e io non ero poi così giovane. Per tutti questi anni non mi aveva mai abbandonato il sospetto che il nostro dialogo, apparentemente casuale, fosse guidato da una sua volontà narcisistica. Che dunque lui sapesse bene di queste qualità mostruose e cercasse un confronto solo per uscirne vincitore. Ma quanto mi vergogno di aver creduto tale cosa. Fosse anche vera. 

Una nuova consapevolezza. Il terzo occhio degli induisti. Lo strappo nel velo della realtà sensibile. La parola della luna e il senso del tempo. Si è chiamata in molti modi e io (me ne convinco?) l’ho agguantata sempre più saldamente con l’affievolirsi della luce. Matita del mondo, ora era compito d’altri condurmi. A me rimane solamente da seguire la nuova strada. Un nuovo tempio, una nuova vita e nuovi sentimenti per gli anni venturi. Sarà la mia sorte la stessa di Pierre Menard? Quando scrivevo quelle pagine, voglio confessare, mi sentivo in colpa nei confronti di Cervantes. Sarà la mia sorte la stessa del Don Chisciotte? È arrivata la cecità, mascherata da Pierre Menard, a riscrivere le storia di Luis. Ho deciso che non avrò timori, d’altronde ero da lungo tempo preparato a questa mattina. Se posso, anche, mi piacerebbe iniziare ad ascoltare più musica. 

 

 

— Alfredo Baggio —

Condividi e consiglia l'articolo:

Articoli correlati

Iscriviti alla newsletter

Rimani aggiornato sul festival
e su tutte le attività durante l’anno!

Iscriviti alla newsletter​

Rimani aggiornato sul festival e su tutte
le attività durante l’anno!