Laurence Sterne non è tra i migliori scrittori che abbia letto, ma forse sono solamente nervoso: non si può godere di una storia gingillando con le granate in tasca. Se ci sarà un domani è giusto concedergli un altra possibilità. Il fatto è che mi è venuta gran voglia di scrivere, ma non sarò in grado di darmi alla satira come questo Sterne; non ho tempo per risolvere le mie rogne con sarcasmo.
La roccia non affoga, beve anzi, dal rubinetto aperto dei nembi scuri, a un sorso composto per volta. Scherma il mio corpo disanimato dal ritmo sferzante dei goccioloni e quanto il cielo sia nero di temporale non so dirlo con sicurezza; penso molto, perché adesso non c’è più sole a svelare il moto derviscio del vapore piovano. Che gran bella cosa la pioggia, c’è da dirlo; se ti salva la vita poi: ancora più gradevole. Lo scalpicciare delle frotte vaganti di militi è un ricordo, fresco di pochi minuti, ore forse, passati senza la guida dell’orologio. Dalla poca luce che penetra nella fessura si suppone siano le otto di sera; peccato davvero non siano qui Bene, oppure Enrico, Dante, Renzo, Rodino, gli altri, Antonio lontano, Lelio, ma anche il quieto russo di Kiev, a farmi sì con la testa, come sarebbe convenuto nella situazione in cui ci saremmo ipoteticamente trovati. Insieme in una fuga silenziosa, di assensi e dinieghi affidati alla mimica contrita di due partigiani imbelli, sennonché ero fuggito da solo. Mi ci sento, solo, come un cane senza padrone e senza branco, punzecchiato dalle Parche che sono certamente sollazzate dalla mia corsa per la vita.
La mia anima, il sentire, sono come svaniti; appena dal momento in cui era giunto anche il mio turno di confrontarmi con la morte e poi completamente da questa mattina. Lo sconcerto, per la nostra somiglianza con i soldati che ci davano la caccia, per la loro giovinezza, era durato il tempo del primo sparo; e dopo questo, anche la solitudine estrema sembra ora far più compagnia che male. Affianca il colore tumultuoso della notte, agghindato qua e là dagli aghi verdi dei mughi.
Se mi riesce di descrivere cosa sento dico che la mia anima si è scollegata dalla carne e bivacca in essa, al sicuro da quella trascendenza che solamente il mondo sensibile può donare. Il corpo vive da sé, autonomo, e custode dell’anima, ferita gravemente da un eccesso di mondo sensibile: i proiettili dei miei assurdi connazionali, la fuga caracollante giù per i dirupi, la notte umidiccia in un’anonima tana sull’Altipiano.
Ho ancora una pagina intonsa, in fondo al mio cahier, e mi fa così peccato dedicarla alla tecnica di guerra; di più ancora adesso, che sono orfano di battaglia. Ci scrivo qualcosa in memoria di oggi, magari del domani. Vivrò? Invece il lapis pare sopravviva incerto alla precarietà dell’attimo: carpe noctem! Ecco! Sopravvive in me anche uno squallido senso dell’umorismo, che mi è molto di consolazione. Questo tipo di riflessioni mi sono sempre piaciute, ma qui ammetto che non mi viene in mente nulla che sia lontano dalla guerra: penso inesorabilmente agli emisferi verdastri sulle teste altrimenti uguali alle nostre dei soldati impegnati nel rastrellamento.
Vengono avanti in fila scomposta, noi siamo in ginocchio, tra le frasche punzute dei mughi. Renzo è al mio fianco e prepara il parabello; pensavo al Bren degli inglesi e di quelli di Roana, che a qualcuno più pronto a uccidere di me sarebbe stato forse più utile. Io tengo le mani sulle signorine e sulla grossa canadese, ma non avrei ceduto all’extrema ratio, non prima almeno di essermi trovato solo, in mezzo a un manipolo di loro, e con i fucili puntati contro. Il piano è la ritirata; ad un cenno tutti si alzano e via di corsa, tra la vegetazione dura, giù per le cenge, correndo come forsennati tra le forcelle, saltando forre e golette più umili, ma ugualmente fatali all’inciampo. Il parabello sbatacchia sul fianco e i fischi delle api di piombo sono ben udibili. È stata questa la mia mattinata.
Sarebbe saggio riprendere la fuga giusto ora, adesso che la notte è fresca di tramonto e durerà ancora a lungo. Il buio non è amico dei rastrellamenti, specialmente se condotti da militi inesperti e stanchi. In più c’è da tenere in considerazione che probabilmente sono armati con dei vecchi Carcano che avranno visto l’Africa e qualcuno di loro m’era parso portasse a tracolla addirittura un innocuo Balilla: le possibilità di arrivare alla Marcesina e poi da lì percorrere la mulattiera fino a Frizzon ci sono eccome.
Sì, esser saggi, ma io sono in stato di shock, insensibile; qualche minuto ancora, nel ventre della montagna, per tornare umano. È passato un filo di luna di traverso ai nuvoloni scuri e la pioggia è ferma, benché presto tornerà a cadere. Allora prenderò la via, ma fintanto che la luna segna il profilo del crinale, mi soffermerò a pensare all’umanità e alla guerra. Per esempio, il rastrellamento, è ben strana cosa. Chi ci pensa mai durante il fuoco degli scontri? A queste piccole vendette anonime, in luoghi ai più sconosciuti, tra le trincee di una guerra da poco conclusa; sembra quasi non sia passato tempo bastevole a una generazione per raccontarla a quella successiva. L’han combattuta talvolta insieme, nello stesso buco scavato in terra; e questa, insieme, oppure no, contro: padre fascista, figlio comunista; padre comunista, figlio fascista; padre coraggioso, figlio pavido; padre pavido, figlio coraggioso. Sia chiaro: non credo per nulla nella dicotomia che oppone i comunisti, anche quelli più interessati, che vengono nominati nel libro mastro del grande padre, ai nazisti e fascisti. Ma i grandi numeri quasi impongono di parlare di loro come se ci fossero solo loro. Più o meno tutti, se per tutti si vuol parlare della maggior parte di questi grandi numeri di comunisti e fascisti, non lo sono che nel nome; l’appartenenza ad una oppure all’altra fazione allunga le proprie radici più solide nell’educazione familiare, la cultura paesana, cittadina e regionale.
Noi del gruppo di Antonio ci siamo talvolta chiamati qualcosa come: “paracrociani decostruzionsti”, revisionisti, illusi aspiranti apolidi; non esistiamo per davvero, figurarsi politicamente. Ce n’è voluta di santa ragione del Maestro per staccare la mia bocca di giovane dalla mammella grottesca del partito unico; e con la mia abitudine al dubbio, ho fatto mia, a modo mio, la virtù barbara che si chiama partigianeria e che nasce in seno proprio a loro: i comunisti. Padri, o figli che siano, ignoranti, stanchi, rivoluzionari, briganti, folli, veri lavoratori del popolo, ci vuole integrità esemplare o scarsità d’ingegno per fare i comunisti, che sono quasi sempre così scevri di dubbio. D’altronde è tutta questione di ideali: non importa quanto improbabili praticamente; combattere, resistere, a fianco di chi abbraccia un ideale che io possa definire tale. Ed è così che son finito ad ammirare i comunisti, anche se la perplessità che dimostro nei loro confronti, mi spiego ora essere paura. Sì ecco, i rastrellamenti, che bizzarria crudele. Anche i soldati rastrellanti hanno paura, la esprimono così, con la caccia all’uomo. Quanta umanità c’è da perdere per un atto tanto disumano; e solo persone profondamente umane avrebbero tutta questa umanità da gettare in pasto alla paura, in una rappresaglia senza fine. Essere umani non è un privilegio, bisogna smettere di darvi accezione positiva..
Piove, è tempo di abbandonare la caverna per dare inizio ai negoziati con gli scoscendimenti. Mentre stringo il parabello mi fanno male i denti per la rabbia, sento la mancanza dei miei amici. Nemmeno mi interessano i vigliacchi che pattugliano il bosco, se li incontro, sparo.
— Alfredo Baggio —