Autobiografie impossibili – Luigi Pirandello

Se Tonia mi vedesse così, quanto ne soffrirebbe. Non deve saperlo, non resisterebbe all’urto. E io così mi sento un ladro, che contempla il suo bottino senza prezzo sotto la nuova luce a gas del gabinetto. Non posso negare, il trattamento funziona davvero.
Povera Tonia, non è in grado di accorgersi del cambiamento che sta avvenendo sul capo del suo amato marito. Gravata da pensieri inestricabili è la sua mente; una palude di silenzi. Questa luce, del resto, si presta perfettamente alla mia meticolosa indagine.

Illumina ogni follicolo: la cute appare senza ombre, chiara come un mattino d’agosto. Attraversa dei radi capelli, quasi trasparenti, eterei. Certo, potrebbe sembrare quasi che non ci siano, se non li si guardasse con la luce appropriata, dalla prospettiva opportuna. Se Tonia sapesse che metto un unguento medicamentoso per arrestare la caduta dei capelli, ma che dico arrestare, niente di meno invertire il processo, lo prenderebbe come il tradimento più bieco, al pari di consumare la carne di un’altra donna nel nostro sacro talamo. Una macchinazione per attirare l’attenzione di odalische lascive, questo vedrebbe, nel miracolo di un uomo che ringiovanisce, specchiandosi nel folto avvenire della propria capigliatura. Lei non lo sa, sebbene io le racconti la maggior parte dei miei sogni, che nella vita onirica in cui precipito, annaspo, corro lentissimamente per inseguire qualcosa o fuggire qualcuno, compio ogni gesto con una chioma rampante. Ometto sempre questodettaglio. Come quando avevo sedici anni, al liceo, a Palermo. E temevo di puzzare di zolfo, come un povero diavolo, anche se nelle miniere di mio padre non c’ero mai entrato.

Magari era presagio della rovina che avrebbe scaraventato su tutti noi. Soprattutto su di lei. È accaduto tutto abbastanza rapidamente, mentre uscivo dagli uffici della banca in cui mi ero recato a risolvere una faccenda riguardo alcune cambiali pendenti. Il caso vuole che nei pressi della banca abiti tal Vinicio Muschieri, individuo che conobbi ad una cena anni or sono, in quanto amico di un certo imprenditore teatrale di Roma con cui ormai ho volutamente perso i contatti. Io conosco poco sul suo conto, né mi sono mai occupato di saperne di più. Sta di fatto che egli si considera mio grande ammiratore e ciò, dal canto suo, gli conferisce il diritto di importunarmi senza riserve per liberare dal giogo della noia la sua curiosità. Il caso vuole che all’interno della banca, nei pressi dell’ingresso, torreggi il ritratto di due metri per due di Valdimiro Muschieri, padre di Vinicio. Questi presumo sia l’unico erede del compianto commendatore. Presumibilmente erede inetto, se i soci di minoranza hanno preferito dargli una rendita in virtù dell’eredità paterna piuttosto che farlo dirigere attivamente l’istituto di famiglia, come mi confidò un impiegato geloso. I nostri incontri seguono la stessa dinamica dell’incontro tra un uomo e un lupo: il primo ad accorgersi della presenza dell’altro ha la meglio. Per cui ogni volta che mi vede per primo passeggiare attraversa la strada, si alza dalla sedia perfino, per venirmi a domandare con premura pedantesca come procedono le mie fatiche intellettuali e quando potrà godersi i misteriosi frutti di queste fatiche. Se lo vedo prima io, provo a dileguarmi il più discretamente possibile, cercando di mimetizzarmi nel sottobosco urbano. Le ultime due volte sono stato lupo braccato dalle smanie di questo petulante cacciatore metropolitano.

Forse preferirei che mi interrogasse sui debiti che pago, con lauti interessi, alla sua banca piuttosto che sul mio lavoro di umile drammaturgo. Attacca sempre con la stessa frase tra i denti – Voi siete un genio! Non c’è, non c’è proprio un personaggio migliore di Pascal, e mai vi fu. Il dettaglio fondamentale non sta nella sua petulanza inopportuna o nell’umorismo sciatto dei suoi calembour, ma nella precisa cadenza dei nostri due ultimi incontri. Prima di oggi, avevo incontrato il Muschieri il giorno stesso in cui ho iniziato il trattamento. Quello stesso dì mi ero recato dal barbiere per arroccare i radi e reduci capelli, senza ormai nerbo alcuno, in un attremito riporto. In attesa di essere servito, faccio la conoscenza del Sg. Maurolenti Claudio, segretario di un membro del parlamento.
Segretario in quanto specie di pretoriano, guardia privata assunta per assicurare l’incolumità del celebre parlamentare. Maurolenti era esperto combattente, veterano delle colonie, un uomo di mondo, di grande esperienza e carattere. Proprio da lui, che aveva percepito il mio malessere per la questione pilifera, da uomo retto quale credevo che fosse, ho comprato l’olio per capelli. Proprio dall’Abissinia proveniva. Egli sosteneva d’aver combattuto e sconfitto la calvizie con questo olio portentoso; quella guerra sì che l’aveva vinta. I suoi capelli erano fulgidi, sebbene ormai segnati dal grigiore di una vita non sempre lieta. Si passava la mano tra i ciuffi folti e nutriti, appena tagliati, mentre mi raccontava di come l’olio provenisse da un’antica ricetta confiscata ad un mercante, insieme ad una partita contenente ampolle d’olio. Era dovuto tornare in patria prima di Adua per colpa del tabagismo di qualche commilitone: un mozzicone vagante aveva fatto brillare una cassa di munizioni. Esplosione da cui si era miracolosamente salvato, sebbene non incolume: un proiettile impazzito gli aveva trapassato la coscia, passando a soli due centimetri dall’arteria femorale; un altro aveva distrutto parte del padiglione auricolare sinistro. L’estremità posteriore mancava di un pezzetto, come se fosse stato rosicchiato da un roditore di notevoli dimensioni. Il gigantesco ratto della guerra che gli aveva strappato un bel pezzo di orecchio. Senza ulteriori indugi, ho quindi acquistato l’olio, che la stessa sera il Maurolenti mi ha consegnato in una strada vicina al nostro barbiere comune. Da quella sera, come tutte le sere, da ventisette giorni a questa parte, applico l’olio con contagocce comprato in farmacia: 5-6 gocce al massimo, da massaggiare con i polpastrelli direttamente sul cuoio capelluto. Eseguito con grande dovizia il massaggio, appongo la retina, onde evitare di ungere il cuscino.

La mattina del 28esimo giorno, un altro incontro con Muschieri. Questa volta, mentre si complimenta per le mie qualità da romanziere, noto che i suoi occhi tentennano, spostandosi rapidi dal mio sguardo ai miei capelli. Li guarda come per non essere scorto, sapendo che è inopportuno, ma comunque non riuscendo a sopprimere l’urgenza di controllare, ancora un attimo, cosa stia accadendo sulla fronte di questo uomo benedetto, che come Orfeo, sta tornando indietro dagli inferi dalla calvizie. Ah! L’ha visto, e come potrebbe – mi sono detto- non notare il miracolo. Quanta tracotanza. Lo incalzo, anche per evitare di rispondere alle sue domande, e faccio questa osservazione.

Egli mi guarda incredulo, rispondendo poi con un sorriso che cela un’esitazione. Abbassa lo sguardo prima di cominciare a parlare. – Avete ragione, ma non posso evitare di notare, che dall’ultima volta che ci siamo incontrati, la vostra calvizie è peggiorata…- altro sorriso esitante prima di prendere fiato e guardarmi diritto negli occhi, alzando il capo, il petto e la voce – ma questo- indicando con gli occhi il mio capo- secondo i nostri dettami estetici – ammicca alla fascia sul braccio – è un privilegio. Io personalmente penso che bisogni considerare la questione anche dal punto di vista aereodinamico…- lo interrompo- Dubito che mi siano caduti i capelli perché vado troppo veloce. Arrivederci – Eppure, adesso che torno a casa a passo svelto, con il battito accelerato, la monta di calore umido sotto il cappotto, mi sento di correre, ma da mesi, anni, con fatica secolare, la corsa flemmatica di chi è esausto di girare in tondo, dentro un panorama di certezze che si sgretolano. Allora quell’olio (costato quasi quanto una rata con interessi, ah se lo sapesse Tonia) è una truffa! Quel giannizzero di Maurolenti mi ha raggirato! Si sarà sparato, si sarà fatto mangiare l’orecchio da un ratto pur di tornare dalla guerra, semmai c’è stato. Bugiardo e truffatore.

Chi sa chi è veramente? Io per lui sono stato solo un altro pollo spelato da spennare ancora di più. E così resterò per sempre, nella lunga fila di uomini truffati, un motivo di sorriso, e mai sarò qualcos’altro per lui. Non sono certo un fesso io, anche se questa volta lo sono stato. Ma si può essere fessi una volta e mai più? O quando si è fessi una volta, si è fessi e basta, e lo si è per sempre? A tutti capita- mi rispondo- dipende dalla frequenza: a questa è imputabile la causalità dell’appellativo di riferimento. E questa sintassi burocratica mi convince della verità della mia risposta, per un attimo. Cosa mi rende me? Quali caratteristiche mi sono imputabili per la frequenza con cui commetto determinate azioni associabili alle suddette caratteristiche? La somma di quelle frequenze compone quella che è la mia persona? Insomma, ammesso che non sia un fesso, chi sono io? Proprio come Orfeo, ho guardato indietro per cercare una conferma, vi ho scorto l’abisso e tutto è perduto. Io stesso, sono perduto. Chi sono? In questo preciso momento, se potessimo estrarre dal mio cranio una lunga pellicola attraverso cui poter leggere in radiografia tutti i miei pensieri, ce ne sarebbero solo tre, tre quesiti resi monolitici dalla loro stessa ridondanza: sono un uomo senza capelli? Sono un uomo a cui stanno cadendo? O uno a cui stanno crescendo? Ma questi individui non sono un uomo, sono me. Luigi. Allora sarebbe da chiedersi: Chi è Luigi? Il figlio disgraziato e indebitato per il direttore di banca, l’abile romanziere per suo figlio; un disperato da truffare per quel giannizzero di Maurolenti. Per il suocero, un partito degenere che ha sperperato la dote della figlia per sanare vecchi debiti. In alcune giornate, un marito premuroso, a volte distratto, per Tonia; il fetente fedifrago, in altre giornate, sempre per Tonia mia moglie, quando è ossessionata da fantasmi di gelosia quantomai improponibili. Ma questi sono Luigi, i Luigi degli altri. Per essere Luigi, per essere me stesso, io non ho bisogno di un nome. Sapere che sono un personaggio secondario nella vita degli altri, anche dei miei cari, demolisce la mia individualità da protagonista. E ancora più dolorosamente, comprendo che la mia esistenza è stata finora un inconsapevole tentativo di nutrire questa pletora di Luigi, queste false riproduzioni, una fantasmagoria meccanica, per soddisfare gli altri. Appunto per questo, non so rispondere alla domanda che mi sono posto troppo tempo fa. Qual è l’originale, tra tutti questi, non saprei dire. In questo spontaneo artificio mi sono perduto. Anzi, non mi sono mai veramente saputo. Non posso conoscermi attraverso gli occhi degli altri.

Così, forse, più che ritrovarmi, dovrei proprio cercare di trovare me stesso in prima istanza; se questo cercare ha in fondo un senso che non sia capriccio e frustrazione. E per non uscire di senno, purgare questo mare psichico, tutto ciò che potrei essere stato e non sono; esalare tutti gli altri me, un pianto d’inchiostro per chi, seppur nato, in fondo non ha mai potuto vivere. Ora forse ne potrei scrivere meglio, ora che capisco un poco di più che scegliamo e siamo scelti tra centomila possibilità, ci concretizziamo ogni momento in una, che non è mai la stessa, né per noi né per gli altri né per la vita, e quindi per questo, forse mai nessuna possibilità diventa concreta; e noi con essa. Ma quanto vale, quanto è rassicurante, mantenere questa fiacca parvenza che chiamiamo identità.

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Alex Di Nicolò

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