Autobiografie impossibili – Marguerite Yourcenar

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La nave scivola sulle creste perlacee dell’oceano, che soffia forse per allontanare noi e i presagi che ci portiamo appresso. Da molto non si vedono più gli spuntoni neri e verdi della terra; né gli uccelli tracciano voli nel mezzo delle nuvole, e l’aria è sempre impestata di un odore salato, indigesto, che dona al corpo esposto un vigore mai provato in nessun altro luogo. Come l’astronauta seduto nell’abitacolo che vede costantemente fuori dall’oblò la stessa oscurità punteggiata dalle stesse stelle, testarde e opprimenti, così la me marinaia assaggia la fissità di questa pianura liquida che rasenta l’infinito, e si lascia divorare. 

Gli altri viaggiatori sono austeri, frigidi, pasciuti. Hanno le voglie dell’aristocratico e la pochezza dei bambini. Difettano in fantasia; sembrano godere delle abitudini mondane cui gli opuscoli di viaggio cercano di indottrinarci. Io non gliene voglio a male; anche a me divertono le danze serali, le partite di carte, le ciarle ironiche, il calore di un cocktail. Eppure c’è un richiamo che non smette di mugghiare, un rullio, forse un vorticare, un frangersi di acque spumanti che schiaffeggia lo scafo d’acciaio e non riposa mai, e insieme sembra fare il mio nome per attirarmi sul ponte dove le stelle brillano più delle lampade.

Una notte, mentre mi rigiravo chiusa nella mia cabina, nel mio loculo da pellegrina, da eremita, da profuga, non sopportando più l’insistenza del richiamo, decisi di uscire sul ponte nonostante le precauzioni che il personale di servizio (o ciurma, come piace dire a me) ci chiedeva cortesemente di osservare. L’aria fuori era irrespirabile: fredda, pungente, amara e piena di cattiveria. Sembrava di essere avvolti da un nugolo di ali scure e di essere morsi alla gola da decine di piccoli dentini bianchi. Mi strinsi nel cappotto e infilai il viso nel bavero imbottito; alitavo e mi strofinavo le mani, saltellando sul posto perché i miei piedi non si attaccassero alle travi del ponte per il gelo. Sapevo che non sarebbe mai successo, ma mi divertiva pensare il contrario. 

Mi decisi e affrontai il filare di torce che si stendeva sulla mia testa, sotto il portico del castello centrale, e che si dirigeva verso la prua disabitata. Più illuminata della poppa, la prua fendeva le tenebre senza remore e proseguiva incauta scavalcando le onde e le brume. Ogni volta che vi sostavo, mi dava l’impressione di trovarmi esattamente sulla punta finale dell’ago di una bussola. In quel momento invece, lo spazio aguzzo della prua mi sembrò un’isola solitaria, un’aiuola di legno e metallo che dondolava ritmicamente su una grande pozza di tenebre. Vi entrai titubante, mentre il richiamo delle onde si smorzava man mano. 

Di fronte a me si stagliò una figura umana, alta, ricurva, indaffarata su qualcosa di invisibile, dai movimenti agitati. Sobbalzai quando la vidi apparire perché non avevo udito alcun passo nell’avvicinarmi alla prua, né avevo scorto una voce, un respiro, un qualsiasi indizio di presenza umana. La figura si raddrizzò e cominciò a correre verso dritta; gridava a squarciagola contro qualcosa, guardando ora in alto e ora ai lati, in una lingua a me sconosciuta che mi ricordava, per sonorità e pronuncia, il poco che sapevo del cinese. Si trattava di un uomo, muscolare e dal collo taurino, vestito con una casacca bruna smanicata e dei pantaloni sudici, zuppi d’acqua, dagli orli sfilacciati. Ai piedi calzava dei sandali scuri, dalla forma esotica e aperti sul tallone; ai polsi portava dei bracciali di rame, inverditi dalla ruggine. L’acconciatura dei capelli fu ciò che mi colpì maggiormente: aveva il cranio rasato ma dalla nuca gli scendeva una lunga treccia nera che arrivava a sfiorargli il fondoschiena. 

L’uomo si comportava come fosse nel mezzo di una guerra. Si affrettava da un punto all’altro della prua e mimava i gesti di un marinaio che assicura le sartie, che schiva le pallottole, che comanda i compagni, che trascina i barili di polvere da sparo verso i cannoni. Faceva un tale chiasso che mi aspettai di vedere l’intera popolazione della nave assieparsi lì attorno a me; e invece restai a guardare la probità di quell’uomo in solitudine, senza che nessuno venisse a verificare, come se in realtà fossi quella che dormiva più profondamente di tutti. Stavo sognando? O forse avevo incontrato uno spettro? La risposta doveva per forza trovarsi nel regno del sovrannaturale; perché altrimenti avrei dovuto supporre di essere in preda alle visioni, o che a bordo ci fossero personaggi strampalati, ammattiti, gente che la notte inscenava una recita folle come un licantropo sotto la luna piena. 

Mentre ragionavo così, l’uomo scomparve. Lo persi di vista un istante e lui sfumò nelle brume notturne. Da sopra di me, dalla balaustra del castello, calò una voce rauca, gorgogliante, che pareva masticare nel mentre che parlava, e impartì al vuoto le sue grida sconclusionate in quella strana lingua asiatica. Il rullio delle onde venne spezzato da un boato infuocato, come se una cannonata si fosse infranta sulle murate di un galeone. Guardai velocemente verso l’alto e non vidi nessuno. Un irregolare e frettoloso tamburellare di passi cominciò a roteare attorno alla mia presenza scandalizzata e ad occupare l’intero spazio della prua col terrore scalmanato della guerra. Ma non c’era nessuno nemmeno sulla prua, e io ero ancora sola. 

Volevo andarmene e ritirarmi da quell’allucinazione, ma la curiosità scalciò con maggior prepotenza del mio istinto di conservazione, e allora rimasi lì, immobile, ad ascoltare l’eco roboante di quell’antica battaglia, resuscitata dall’oceano perché io ne testimoniassi il caos. Chiusi gli occhi e sentii il fischio lancinante del cordame lacerato, la balbuzie sventolante di una vela sfondata, i pianti scheggiati del legno che veniva sbriciolato. Grida incomprensibili si inseguivano da una parte all’altra della nave e ad esse rispondevano altre grida concitate, più brevi, alcune monosillabiche, e poi esplodevano le corse e i tuoni della polvere attizzata. All’ennesimo grido seguirono i tonfi assordanti di un gong e i cori tintinnanti delle sciabole che cozzano tra loro. Vidi l’uomo dalla lunga treccia estrarre due lunghe lame dal nulla e gettarsi nel buio in una mischia invisibile, carico di furore e implacabile gioia. Due ferri scintillarono a un metro e mezzo da me; qualcosa cadde a terra e un rantolo dolorante soffocò nella notte. 

Da quel bailamme di clangori e ululati, si sollevò una luce rossa, come un razzo di segnalazione, o come la scia di una cometa che invece di scendere nell’oceano fugge da esso, per tornare a casa nel cielo siderale. La scia si agitava e fluttuava come un serpente; fiamme circonvolute avvolgevano i suoi contorni e ne bruciavano la materia, che si staccava in brandelli dal corpo principale e cadeva verso la prua come una lieve pioggia di tizzoni. Incantata com’ero, non mi preoccupai della possibilità che quella pioggia potesse bruciare la prua; quando ci pensai, le prime gocce cremisi avevano già lambito il ponte ma lo avevano anche attraversato e si erano andate disperdendosi in quell’ora di sogni. Anche il fuoco volante era innocuo. Lo osservai ancora e mi accorsi che era un drago, probabilmente un aquilone con la forma del mostro baffuto, a cui era stato dato fuoco per scopi arcani, forse per intimorire i nemici del mare o per incendiare le loro barche, o forse ancora per invocare in aiuto la possanza del mito. 

Quando il drago si esaurì, cessarono con esso anche i rumori della battaglia. Rimasi lì ancora un poco in attesa di un gran finale che non arrivò mai. Dallo speranzoso est invece, baluginarono i primi rossori dell’alba. Tornai alla mia cabina e mi coricai nel letto sfatto per riposare un poco; crollai quasi all’istante e trascorsi poche ore in un sonno buio, fino a che non fui svegliata dalle scosse scherzose di J. Il giorno dopo giungemmo a Yokohama, sulla costa nipponica, e salutammo le acque colossali dell’Oceano Pacifico. Visitammo i templi sussurranti e la sera sorseggiammo il saké dalle tazzine in porcellana, le mani giunte come un ricevente in entrambe le occasioni. 

In un locale moderno, decorato con paralumi di carta e pergamene ukiyo-e, sentii le chiacchiere di un americano circa le letture che stava facendo sulla pirateria indocinese del XIX secolo. A quanto pare molte giunche affondate, tanto della marina imperiale quanto dei pirati, giacevano ancora sul fondo dell’oceano, infestate da murene e granchi dalle chele spesse. Non potei fare a meno di chiedergli se sapesse niente su guerre navali avvenute nel tratto di mare che separa il Giappone dall’arcipelago indonesiano. Lui alzò le spalle, disse di aver appena spulciato l’argomento, ma ipotizzò che probabilmente fossero avvenute e che, nei fondali da me indicati, si potesse rinvenire qualche relitto, anche solo un asse sbrecciato o un doblone arrugginito, trascinato fin là dalla corrente. Ci intrattenemmo ancora un poco e poi lo salutai garbatamente. Raccontai ogni cosa a J., che trasse le sue conclusioni: la nostra nave doveva esser passata proprio sopra uno di questi relitti e i fantasmi di coloro che erano affondati con esso ne avevano approfittato, chissà se per volontà o per natura, per manifestarsi ancora una volta tra i vivi. Non potei fare altro che accettare questa ipotesi fantasiosa.       


Leonardo Albano

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