Strepitoso successo anche alla seconda edizione del Contest di scrittura per studenti “Scritture in movimento, scrittori per un giorno” tenutosi durante la scorsa edizione di CartaCarbone Festival 2024.
Cento ragazzi e ragazze delle scuole superiori hanno trascorso la mattina a scrivere un racconto, la domenica del Festival, che una giuria tecnica e una giuria popolare han poi valutato e votato.
Cinque giovani finalisti, vincitrici del nostro concorso “Scritture in movimento, scrittori per un giorno” sono state premiate, poi, in Salone Borsa, emozionati e incredibilmente meritevoli.
Quanta bellezza in questi ragazzi e ragazze che con la loro creatività fanno brillare le parole.
Ecco i primi 5 classificati:
- Caterina Pavan – Liceo Ginnasio Antonio Canova
- Virginia Marchioro – IIS Giovanni Valle
- Tommaso Vincenzo Mainenti – Liceo Ginnasio Antonio Canova
- Alessandro Lupi – Liceo Ginnasio Antonio Canova
- Flavia Piccione – Liceo Linguistico Antonio Canova
Ed ecco i premiati dal 6° posto al 10° posto a pari merito:
- Loto Cossovel – Collegio Vescovile Pio X
- Benedetta Giorgi – Liceo Giorgione Castelfranco Veneto
- Raffaele Minuzzo – Liceo Ginnasio Antonio Canova
- Martina Michieletto – Liceo Ginnasio Antonio Canova
- Beatrice Valotto – Liceo Ginnasio Antonio Canova
E finalmente ecco di seguito i 10 racconti selezionati. Buona lettura!
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Primo classificato
Caterina Pavan – (Liceo Ginnasio Antonio Canova)
TITOLO: Il tempo
Il sottile foglio di pergamena era affisso al portone d’ingresso con un chiodo arrugginito, frusciava piano mosso dall’alito freddo e buio della vigilia di Natale. “È qui dentro”. Quelle parole mi risuonarono sul cuore come una mano calda e morbida, c’era qualcosa che mi chiamava al di là della porta. Girai con lentezza la maniglia in ottone e i cardini cigolarono un po’. In quel suono mi sembrò di riconoscere la voce della nonna, ostinata fumatrice e saggia consigliera. Varcai la soglia e l’odore del legno mi avvolse come una calda coperta natalizia, mentre un allegro fuocherello fiammeggiava nel camino. Sorrisi. Riuscivo quasi a sentire le voci della mia famiglia quando dopo il pranzo di Natale ci scambiavamo i regali, contenti di quel momento così prezioso che si ripeteva negli anni, fuori dal tempo. Al centro della stanza c’era un massiccio tavolo in legno di ciliegio, su cui si trovavano diverse carte, alcune in pile ordinate, altre sparse come foglie d’autunno.
Qua e là i fermacarte dorati sembravano intrattenere seri discorsi con le penne stilografiche rosse e nere abbandonate sul legno. Stavo per sfogliare una delle pile quando la mia mano si arrestò a mezz’aria. Non avevo notato che il fermacarte posto a disciplinare quelle carte fosse una clessidra. La sollevai, era estremamente leggera e infinite curve dorate accoglievano al loro contentanterno le caratteristiche ampolle in vetro, unite dalla sabbia chiara in un eterno dialogo. Girai il piccolo oggetto in tutte le angolazioni fino a quando non trovai in segreto che mi stava chiamando…
Lungo una delle curve era incisa una scritta: “Panta rei”. Ricordai la voce della nonna che mi traduceva le antiche parole mentre il vento frusciava tra le foglie: “Tutto scorre”. Ecco il segreto dell’oggetto, chiusi gli occhi come aveva fatto la nonna mentre liberava una boccata di fumo nell’aria tiepida. Ancora non avevo imparato a dare il giusto spazio, il giusto valore e persino il giusto tempo al tempo. E ora avevo capito che quella lezione era tutta nascosta nel movimento dei granelli di sabbia che vivevano fuori dal tempo, come lo scambio dei regali a Natale. Anche io volevo comprendere quella danza senza fine nella sua essenza, nella sua ottica del “per sempre”, nel suo effimero scorrere.
Uscii lasciando tutto al suo posto, sorrisi di nuovo al cigolio dei cardini e non presi niente, perché il dono più grande era dentro di me.
Secondo classificato
Virginia Marchioro – (IIS Giovanni Valle)
TITOLO: Ti vedo
“È QUI DENTRO”, non lo vedo solo scritto in un cartello, lo sento, sento che mi sussurra, allora entro. Rimango immobile, sovrastata da mille dolori. Un improvviso brivido mi percorre la schiena, il mio corpo emana calore ma attorno a me c’è solo freddezza e la mia anima sta lacrimando. Sono lacrime amare, sapendo che quello che vedo è solo un’altra illusione, che mi accoglie in maniera disumana.
Vedo una persona, un volto perplesso, ha paura, io invece lo guardo. Ho dei desideri cocciuti, che hanno bisogno di essere compresi. Non mi rivolge la parola, ma uno sguardo agghiacciante, i suoi occhi sono pieni di angoscia, risuonano in me come una frana. Ho solo bisogno di essere ascoltata. La mia impotenza si inerpica in lui, ha il viso sfregiato da tanta solitudine ormai diventata simbiosi con il suo “io”.
Piange sapendo di non potermi ascoltare. Insisto, urlo, strappo i deliri che lo avvolgono, sembra un delitto. Ho spogliato la sua mente. Improvvisamente la voragine che mi apparteneva si ricopre di consapevolezza, mio padre è davanti a me.
Vengo pugnalata da “verità”, ora però sono in pace, i miei dubbi sono stati cullati e finalmente non sono più sola. Non l’ho mai visto così, non l’ho mai visto davvero. Gli dico di non nascondersi mai più. Gli confesso che ora sono libera, perché è riuscito a riconoscermi.
Terzo classificato
Tommaso Vincenzo Mainenti – (Liceo Ginnasio Antonio Canova)
TITOLO: Ho smarrito
Dieci rintocchi di campane. La pioggia mi scroscia sulla schiena, i vestiti si inzuppano, sento l’acqua bagnarmi i piedi. Non so più dove sono, mi fiondo sotto un portico. Silenzio. Non vedo nessuno.
La fioca luce dei lampioni non giunge a illuminare gli angoli più scuri. Sento solo il mio cuore che batte come volesse urlarmi di fuggire. Ma io sto bene. Dopo la notizia di questa mattina so di non essere più lo stesso.
Ho deluso i miei genitori, sì, ma non mi importa, ho abbandonato i miei compagni, sì, ma non sarà una grande mancanza.
Ancora nessun rumore, ora i miei pensieri. Vogliono forzarmi a vedere il peggio di me, io non voglio, lotto con i miei pensieri, non sono che le parole dei miei genitori, del temibile professore, dei miei amici che non capiscono niente, ma non hanno più motivo per cui debba ascoltarli. Tanto adesso sono zuppo, smarrito sotto i portici. Esplodo di rabbia, forse non è vero che sono insensibile agli altri. C’è quella mia compagna che tanto mi piace, ad esempio. Sto per perdere il controllo dei miei sentimenti quando sento una voce che parla. Mi osservo intorno, con cautela, ma non c’è nessuno.
Forse viene da dentro di me. Mi irrigidisco, sento un brivido lungo la schiena bagnata. A lato ecco un portone maestoso, barocco, due leoni come battenti incutono quasi paura e in alto un’aquila a scacciare chi è indesiderato.
Forse lo sono anche io. Ma no! Un cartello affisso giusto di fronte ai miei occhi mi guarda e sembra parlare: “è qui dentro”, recita. Mi domando se fosse la voce che avevo sentito. Entro, a fatica apro il portone, mi guardo attorno. Sono uno specchio. Neanche uno di quelle favole che leggevo da bambino. Uno specchio come un altro, come quello in cui si guarda il papà mentre si rade il viso. Sono io, sono solo, smarrito.
Mi specchio, mi guardo a fondo negli occhi, vedo me stesso, vedo le prime lacrime rigarmi il volto.
Non serve a niente avere la faccia tosta di credersi inscalfibile. Sono io. Non vedo più il punto di fare il duro. Voglio sentirmi libero di esprimermi, di guardarmi in quello specchio e poter riconoscermi in quegli occhi cerulei che ho. Non ho più il bisogno di mascherarmi come fosse ogni giorno carnevale e poter fuggire i miei sentimenti.
Da oggi per sempre, sono libero.
Quarto classificato
Alessandro Lupi – (Liceo Ginnasio Antonio Canova)
TITOLO: Odore di X
Passeggio, no so da quanto, cerco di rilassarmi ma è quasi impossibile; vivo una vita troppo frenetica, però mi adeguo ai suoi ritmi, voglio restare al passo, quindi corro. Rilassarsi è difficile, ma c’è tempo e poi i nostri pensieri sono assillati da ciò che sarà in futuro, da ciò che era e dalle scelte che avremmo potuto prendere o dalle occasioni che non abbiamo saputo cogliere, ci preoccupiamo, ma non pensiamo che la vita è un campo di fiori, anche se non ne cogliamo uno subito, più avanti ne troveremo altri.
Imbocco “via Portico Oscuro” per sfuggire alla frenesia della strada e subito un odore di X pervade la stradina. I palazzi sono alti, ma un comignolo giallognolo attira la mia attenzione, assomiglia ad un sottile torrione di un castello medievale. Mi avvicino quasi inconsciamente mentre l’odore di X inebria i miei sensi.
Proprio sotto al comignolo c’è un portone aper, mentre una porta fatta di sbarre lo precede. Al portone è affisso un cartello che recita: “è qui dentro”. Decidi di entrare per scoprire cosa si celi dentro il palazzo. Appena mi avvicino al palazzo, le sbarre della porta si spiegano e si contorcono per creare la stessa scritta del cartello: “è qui dentro”. La scritta di ferro fluttua in aria muovendosi placidamente come solleticata dal vento. Tocco quel “ τέρας “, il prodigio greco, ed esso svanisce in una nuvola di polvere. Accedo al palazzo entrando dal portone, lo spingo ed entro. L’interno è spoglio ed una sola scala di pietra costituisce l’arredo. La salgo guidato dall’odore di X ed al terzo piano trovo una stanza vuota ad eccezione di una porta circondata dal niente. I rumori sono come scomparsi e odo solo i miei passi ovattati. L’odore di X è più debole, nonostante io comprenda che la porta in mezzo alla stanza sia la fonte di ciò che fiuto.
La porta ha una maniglia di ottone, anche se non c’è una serratura. Incuriosito da tale singolarità, apro la porta girando la maniglia; la porta scompare, lasciando galleggiare a mezz’aria il battente. La maniglia mi rimane nella mano destra e, insospettito dal peso leggero, la apro, rivelando un sottile foglio di papiro su cui è scritto: “È qui, l’hai trovato”. Guardo fuori da una finestra presente su una parete e rimango stupito dalla vista di un passerotto immobile in cielo. Notò che tutto è immobile, le persone sembrano paralizzate e le foglie mosse dal vento lievitano sopra i selciati delle viuzze. Il silenzio regna sovrano. Capisco che la stanza ha interrotto il tempo e che io posso approfittarne per rilassarmi. Tutto è fermo e la quiete detta legge. Intuisco di aver trovato, dentro quella stanza, il posto per fermarmi a riflettere e pensare durante incastrati alla perfezione come in un puzzle.
Quinto classificato
Flavia Piccione – (Liceo Linguistico Antonio Canova)
TITOLO: Oculi draconis
Arrivai davanti a quel palazzo misterioso, un’ondata di adrenalina mi travolse e mi sorse una domanda spontanea: “Cosa c’è dietro quel portone?”. Ebbi paura, era tutto troppo strano, ma la curiosità ebbe il sopravvento. Aprii il portone ritrovandomi in una stanza vuota, senza finestre e con luci fredde che mi ricordarono un ospedale. il contrasto tra il bianco delle pareti e nero del pavimento diede quasi fastidio ai miei occhi el’assenza di mobili rese la stanza ancora più deserta. Tesi le orecchie; silenzio assoluto, quasi pacifico. Non c’era anima viva.
Un brivido scese lungo la mia schiena; non era paura ma un misto di curiosità, adrenalina ed eccitazione. Mi avvicinai al centro della stanza guardandomi più volte intorno, ma improvvisamente si spensero le luci, il portone si chiuse con uno schiocco secco accompagnato da un mio sussulto. D’un tratto avevo la gola secca, deglutii a fatica quando un faretto dal soffitto si accese indicando un punto preciso sul pavimento. Camminai con cautela, un’attrazione improvvisa si divulgó dentro di me. Abbassai lo sguardo e trovai un oggetto a me ancora sconosciuto. Era un uovo, ma non uno qualunque. Era grande quanto una palla da rugby, aveva un colore verdastro con macchiette scure sparse per tutta la superficie. Lo presi da terra con attenzione e lo osservai più da vicino. Sentii uno scricchiolio, mi immobilizzai: proveniva dall’uovo.
Piano piano si formarono decine di crepe sulla superficie liscia dell’oggetto, che si ruppe improvvisamente tra le mie mani. Una creatura grande quanto il palmo della mia mano uscì dal guscio spaccato: era un cucciolo di drago. Ero incantata, non avevo mai visto tanta potenza in un essere così piccolo. Il draghetto era nero come la pece, la schiena era ricoperta di spine e gli occhi erano del colore del cielo più limpido che avessi mai visto.
Con quegli stessi occhi, la piccola creatura guardò nei miei, fissandomi nel profondo della mia anima e sentii una connessione immediata. Un’ombra di un sorriso si accennò sulle mie labbra. Ero io la prescelta, quel drago mi aveva appena identificata come sua madre. Non mi ero ancora resa conto che quel momento avrebbe cambiato definitivamente le sorti del mio destino e la mia vita non sarebbe stata più la stessa.
Premiati dal 6 al 10 a pari merito
Loto Cossovel – (Collegio Vescovile Pio X)
TITOLO: L’Ordine
Avevo desiderato a lungo questo momento, da quando il prof. Jacobs, una mattina dopo la lezione, mi aveva tirato da parte e mi aveva detto: “Tu sei un ragazzo intelligente, hai compreso l’importanza della tradizione e hai a cuore la sicurezza del Paese. Devi sapere che esiste un’organizzazione, si chiama l’Ordine, che si occupa di difendere la Patria dai pericoli che la minacciano. Tu nell’Ordine saresti una figura molto apprezzata. Hai molte qualità. Pensaci. E, ricordati, non parlare a nessuno di questa nostra conversazione: tra di noi sono nascosti molti nemici, e l’Ordine é costretto a vivere nella segretezza”.
A me quel discorso piacque. Esiste un’etá in cui faresti di tutto per sentirti apprezzato dagli altri. Dissi di sì, ma con parole ponderate, calme. Mi disse che non dovevo fare niente, che quando sarei stato pronto, mi avrebbero chiamato. Il mio momento sarebbe arrivato. E ora il mio momento era arrivato. Dietro a quella porta sentivo delle voci. Quando mi avvicinai, un ragazzo mi aprí. Entrai. Dentro c’era un tavolo, ma non mi ricordo molti altri dettagli. Al tavolo era seduto un uomo grasso, che mi fissava: “vieni, ragazzo, accomodati pure”. Mi sedetti al tavolo. L’uomo cominciò a parlare: “Così, tu sei Marcel Philips. Siamo molto lieti di averti qua. Fa sempre piacere vedere che ci sono persone giovani capaci di dedicarsi alla causa. Sai, viviamo in un periodo di grande pericolo per la nostra Patria. La societá é piena di parassiti. Il governo ci porta ogni giorno verso il bene, ma c’è chi vuole il male. C’è chi vuole farci sprofondare nell’abisso, nell’anarchia. Ma noi li bruciamo, i parassiti, vero? vero, Alfred?”
Il ragazzo che mi aveva aperto la porta si avvicinó, e da un mobiletto tiró fuori un barattolo. Dentro c’era qualcosa, ma non vidi cosa. Incendió l’interno, e poi lo appoggió sul tavolo. Allora vidi.Sconvolto, guardai l’uomo grasso. Lui si mise a ridere. “Che cosa sono?” dissi piano con voce tremante. “Hai visto? Gli occhi dei parassiti!” Affermó Alfred con voce languida. “Chi… sono…i… parassiti?” chiesi. A questo punto, l’uomo grasso ricominciò a parlare: “Ragazzo, sicuramente li conosci. Sono quelli che vogliono avere senza saper dare. Nel mondo, ognuno deve badare a se stesso. C’è chi non é in grado. C’è chi non ha un lavoro, ad esempio. Eppure vuole mangiare come un Re! Oppure chi fa un lavoro infimo, ma vuole comunque un bello stipendio! E poi, ancora peggio: ci sono quelli che cibano i parassiti. I rivoltosi! I dissidenti! Non sanno, non possono vivere in società… i loro sono gli occhi più belli!”.
Le sue ultime parole andarono affievolendosi sempre di piú, e poi svanirono. Davanti a me, una porta socchiusa di un’abitazione e una televisione accesa su un programma di dibattito politico.
Benedetta Giorgi – (Liceo Giorgione Castelfranco Veneto)
TITOLO: Nel passato
Neanche oggi sono andata a scuola; ho perso la voglia, ormai ho sedici anni quindi posso scegliere: non sono piú obbligata a vedere i professori o a svegliarmi la mattina presto, anche se stamattina l’ho fatto comunque; voglio vedere com’è Treviso poco affollata, amo la solitudine e visitarla di mattina é l’unica soluzione. Improvvisamente, mentre passo per via Calmaggiore, un odore acre proveniente da un vicolo attira la mia attenzione, non sono solita ad infilarmi in posti del genere, ma quell’aroma mi porta davanti ad un portone di legno su cui è inscritta la frase “È qui dentro”: e pesante, ma lo spingo a sufficienza da riuscire a crearmi un passaggio ed entro.
Una stanza buia si palesa davanti a me in cui al centro c’é un libro sorretto da un leggio; esso sembra una di quelle cronache medievali di cui avevo studiato a scuola; la mia mano scorre sulla copertina impolverata e la solleva; rimango delusa nello scoprire che è vuoto, ma man mano che giro le pagine il mio corpo si sente sempre piú leggero ed inizia a girarmi la testa. Da lì vuoto totale. Mi sveglio. Sono adagiata su un letto non mio in un corpo non mio e non capisco: dovrei star sognando, ma sembra tutto cosí reale. Allora sento una voce femminile chiamarmi: “Agnese!” il mio nome non é Agnese, ma la donna sembra rivolgersi a me; sono spaventata e disorientata, vengo portata davanti ad un signore molto piú vecchio di me. Sono seduta davanti a lui in abiti medievali mentre discute con la donna di matrimonio e del fatto che avesse acconsentito a sposarmi nonostante nel villaggio girasse voce che fossi una strega solo perché mi piaceva leggere.
Non capisco e non appena la mano dell’uomo si posa su di me, lo spingo via e scappo spaventata; sento le voci e i passi di chi mi insegue; voglio soltanto tornare a casa in un posto dove posso leggere, studiare e agire secondo il mio volere senza rischiare la vita. Mi nascondo in una baracca nel villaggio, mi giungono le voci che le persone mi vogliono mettere al rogo e processarmi perché sono accusata di stregoneria. Mi metto a piangere disperata senza sapere che fare, finché una luce accecante non mi avvolge riportandomi nella stanza in cui tutto è iniziato. Mi alzo e guardo l’orario del telefono: sono passate appena un paio d’ore; sollevata, ma allo stesso tempo turbata, per ciò che ho vissuto digito il numero di mia madre e non appena risponde con consapevolezza le chiedo: “Mamma ti prego, riscrivimi a scuola”.
Raffaele Minuzzo – (Liceo Ginnasio Antonio Canova)
TITOLO: La ricerca
Il tempo non è stato affatto clemente con l’edificio che mi svettava davanti.
L’intonaco, che un tempo decorava l’imponente facciata era ormai solo una pallida ombra del suo passato, tanto era sbiadito e screpolato. Macchie di umidità si arrampicavano come ombre sulle pareti insieme ai rampicanti ed il portone era pesantemente segnato da colpi e graffi. Non riuscivo a capacitarmi del perché quella voce tanto ammaliante mi abbia condotto in quel luogo e di come mi abbia fatto giungere nei pressi di questo ignoto palazzo. I miei ricordi erano sfocati ma sapevo perfettamente di essere stato deviato dalla mia usuale camminata mattutina per le vie della città, nonostante le frammentarie memorie di un odore fino a prima sconosciuto e di una strana sensazione di stordimento alle quali non sembravo essere in grado di non pensare.
Riportai la mia attenzione sul portone dell’edificio sul quale era affisso un cartello che fino all’istante precedente non avevo notato. “È qui dentro”, annunciava. Non sapevo a cosa stesse facendo riferimento, ma se ero certo di qualcosa era che ciò che era lì dentro era ciò che cercavo da tutta la vita. Era come un istinto, proprio come quello che mi indusse a bussare. Lo feci per tre volte e per tre volte non ottenni risposta, allorché decisi di aprire il portone che, quasi senza resistenza, si spalancó.
Il buio all’interno era accecante, fuorché per i pochi metri illuminati dalla luce esterna. Fortunatamente trovai subito una candela e dei fiammiferi. Appena accesi questi ultimi la porta si richiuse di scatto e sentii ancora una volta la voce che mi aveva condotto fin lì. “Trova la luce” mi disse ed io, sempre senza pensarci setacciai al lume di candela ogni angolo del palazzo finché non notai uno spiraglio, che poi notai essere una serratura dal quale fuoriusciva una fioca luce. Aprii quella porta e mi ritrovai in una stanza vuota.
Solo allora tutto mi fu chiaro: ciò che conta non è l’oggetto di ciò che cerchiamo, ma la ricerca stessa.
Martina Michieletto – (Liceo Ginnasio Antonio Canova)
TITOLO: Sguardi perduti, legami spezzati
Si svegliò, disteso in un angolo di una via, coperto da dei sacchetti della spazzatura per proteggersi dal freddo; cercò di ricordare cosa l’avesse portato a trovarsi lì, apparivano nella sua mente dei ricordi sfuocati: la musica che gli perforava le orecchie, la testa che girava, gli occhi che vedevano le sagome delle persone sovrapporsi, un tavolo colmo di droga.
Al pensiero di quell’immagine l’uomo si chiese per quanti giorni fosse rimasto incosciente e per quanti giorni fosse rimasto senza avere assunto niente.
Si alzò irrequieto e desideroso della sostanza, con i brividi che gli percorrevano la schiena e le pupille dilatate. Aveva bisogno di sentirsi di nuovo bene, euforico e sereno, inconsapevole di tutti i problemi e le preoccupazioni della vita. “Vieni verso di me, segui la mia voce”.
Non sapeva da dove provenisse quel richiamo, probabilmente era solo nella sua testa esattamente come l’odore che gli riempiva le narici e che gli ricordava casa, e come gli edifici che si animavano, incurvandosi e abbassandosi. Sapeva solo che non poteva fare altro se non dar retta a quei pensieri.
Condotto da quelle sensazioni, si avvicinò ad un palazzo che gli sembrava famigliare. Al portone d’ingresso, e sicuramente frutto della sua immaginazione, era affisso un cartello con sopra scritto “È qui dentro”. Spalancò la porta e trovò sua figlia stante come se lo stesse aspettando da giorni e con in mano la polvere tanto ambita; pensò che la ragazza dovesse averla trovata nascosta sotto il letto. L’uomo dallo sguardo smanioso si precipitò sulla figlia, cercando di strapparle dalle mani la ragione per cui aveva perso se stesso. La ragazza cercò di farlo ragionare, ma non era più in lui, ricordava un animale affamato in cerca di una preda.
La figlia rassegnata e delusa dall’immagine del padre in quelle condizioni, si arrese e gli cedette la bustina; Il padre rapidamente la consumó e si accasció a terra privo di sensi. Mentre la ragazza aveva lo sguardo vuoto volto ad osservare il corpo privato della vita, digitò un numero sul telefono: “Sì, salve, chiamo per mio padre, vorrei annullare l’appuntamento di domani, purtroppo non è più disponibile.”
Beatrice Valotto – (Liceo Ginnasio Antonio Canova)
TITOLO: La Futura Regina
Presa dalla curiosità aprii il portone. All’interno del palazzo c’era una sala immensa, completamente riempita da una folla di ragazze, tutte circa della mia età.
Al centro della sala, sorretta da un piedistallo tempestato di diamanti, c’era la più bella tiara che avessi mai visto: era fatta di un materiale che non avevo mai visto prima, rifletteva i colori dell’arcobaleno che la facevano risplendere come la Luna nella notte. Vicino ad essa se ne stava seduto un topolino bianco dall’aria preoccupata.
Chiesi ad una delle ragazze che cosa stesse succedendo e lei mi rispose con un tono che mi fece intendere che fosse una cosa ovvia, che il principe stava per scegliere la sua futura regina. A quel punto il topolino si alzò in piedi annunciando che era ora di cominciare. Tutte le ragazze, come stregate, si misero in una fila ordinata senza fare alcun rumore. La prima ragazza della fila si inchinò al topolino che con aria solenne le pose la tiara sul capo; la scrutò attentamente per alcuni secondi, poi con un gesto della zampa le indicò di andarsene. La ragazza, con aria triste, gli porse la tiara e andò a mettersi a lato della stanza. La stessa scena si ripeté per ogni ragazza presente.
Ci vollero un paio d’ore ma infine toccò a me: imitando le altre mi inchinai al topo e lui mi posò la corona sulla testa, ma al contrario delle altre, quando mi alzai venni assalita da una luce accecante che mi avvolse completamente. Scomparendo, rivelò un vestito magnifico, da vera regina: era fabbricato con un tessuto dorato finemente ricamato, con una gonna ampia che mi arrivava fino ai piedi e indossavo dei tacchi di cristallo.
Tutto intorno a me le altre ragazze mi fissavano sbalordite. Quando mi voltai verso il topolino per chiedere spiegazioni, al suo posto vidi uno splendido principe, biondo con gli occhi azzurri. Mi sentivo come in una favola, eppure era tutto vero.
Il bellissimo principe annunciò che la corona, sentendo il mio cuore puro ed il mio animo nobile, mi aveva scelta e perciò sarei diventata la nuova regina del regno.