Vite da gua(r)dare. Raccontare sé stessi attraverso il fumetto.

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Il connubio tra narrazione autobiografica e fumetto è antico quasi quanto il mezzo stesso.  I primi autori di questa forma artistica realizzavano soprattutto illustrazioni con fini  satirici, la cui ispirazione proveniva direttamente dalla loro vita quotidiana, o da una scena  significativa cui avevano assistito per la strada. Su questa scia s’inseriscono autori come  Töppfer, Hogarth e Busch, considerati pionieri del medium dalla letteratura di settore: a  loro si devono le prime codificazioni del linguaggio fumettistico quali l’utilizzo delle onomatopee, la discorsività caricaturale e la suddivisione della narrazione in griglie  consequenziali.  

La tendenza di adoperare la propria vita a fini umoristici permane anche all’inizio del  Novecento, quando la produzione fumettistica si fa principalmente statunitense. Un  esempio interessante, forse il più noto, è quello della giornalista Fay King, autrice di alcune  strisce serializzate in cui inseriva sé stessa, in forma caricaturale, alle prese con varie  situazioni quotidiane: le pressioni sul lavoro, le discussioni col marito, i personaggi di  spicco che intervistava per i suoi articoli. La caricatura che fece di sé stessa divenne poi la  fonte d’ispirazione per la creazione del personaggio di Olivia, la celebre fiamma di Braccio  di Ferro.  

L’evoluzione del genere avverrà con alcune opere giapponesi risalenti agli anni ’30 e ’40  del Novecento. La narrazione si sgancia lentamente dalle sue aspirazioni ironiche e  satiriche e devia verso un’impostazione più intimistica, dove importante non è più lo  sberleffo della contemporaneità, ma la rappresentazione sincera di un vissuto inteso come  esperienza unica e stratificata. Il punto d’avvio viene ricondotto alla pubblicazione di The  Four Immigrants Manga, di Yoshitaka Kiyama, opera composta da 52 brevi strisce in cui  l’autore racconta i vent’anni trascorsi da lui e altri tre suoi amici a San Francisco. Negli  anni ’40 verrà pubblicato invece The New Sun, in cui l’autore, sotto lo pseudonimo Taro  Yashima, racconta gli anni del primo periodo Showa e i severi trattamenti che dovettero  subire lui e sua moglie per aver partecipato alle manifestazioni anti-militariste.  Imprescindibile è poi Citizen 13660, opera di Mine Okubo, dove l’autrice illustra la sua vita  all’interno di un campo di prigionia durante la seconda guerra mondiale.  

Grazie a queste opere, la narrazione autobiografica all’interno del fumetto guadagna  profondità e spessore, rivelando così il potenziale espressivo del mezzo in questione.  Opere successive, soprattutto quelle di Yoshiharu Tsuge (Chiko, L’uomo senza talento e Il  giovane Yoshio), slanceranno questo potenziale verso vette ancora più elevate,  permettendogli di inserirsi in un contesto artistico in cui codici espressivi differenti, quali  quelli della letteratura, del cinema e della pittura, confluiscono per generare uno spazio  espressivo nuovo e rivoluzionario. Il racconto del sé si avvale di quella scrittura impietosa  e di quel tratto essenziale che, per Andrea Tosti, ne fanno la cifra stilistica più riconoscibile.  La narrazione autobiografica imbocca per la prima volta i sentieri dell’anima più oscuri col 

solo fine di creare uno spazio bianco, un paesaggio libero in cui poter respirare la vivacità  del disegno e ambientarvi l’onesta morbosità delle fantasie più scabrose.  Negli anni ’70 il genere esplode. Crumb, Pekar, il collettivo Wimmen’s Comix, Nakazawa,  Pazienza: questi artisti mettono a nudo la loro vita e presentano le loro esperienze  personali con un piglio spietato, pregno di un certo disgusto verso il sé che degenera in  tavole roboanti, parossistiche, offensive nei riguardi di un mondo benpensante che non si  accorge della sua stessa depravazione. Soprattutto però, questi autori spingono i codici del  fumetto oltre i suoi limiti, finendo inevitabilmente col distruggerli (iconoclastia già  anticipata da una tavola della serie Little Sammy Sneeze). Ci basti contemplare le tavole  mirabolanti di Pompeo, l’opera più personale di Pazienza: le griglie appaiono sporadiche,  spariscono per far spazio a una narrazione eversiva e incontenibile, spezzata da decine di  punti di fuga diretti verso altrettanti esiti diversi; i fogli di lavoro sono anche fogli a  quadretti strappati dal raccoglitore, pagine di quaderni, tovagliette, stracci; le tecniche  utilizzate possono cambiare anche all’interno di una stessa opera.  

In Pazienza si esplicita finalmente l’anima anarchica del fumetto. A partire dagli aneddoti  sulla propria vita, l’autore spalanca finestre psichedeliche su un mondo sofferente e allo  stesso tempo pieno di amore, e lo fa sfidando apertamente e con totale noncuranza ogni  singola convenzione codificata propria del mezzo fumettistico. Questa tipologia di opera  è capace di rivelare tutto il potere espressivo del fumetto; ne ridisegna le definizioni, le  scardina, costringe i lettori a ridiscutere le proprie convenzioni. “Cos’è il fumetto?”, ci si  chiede quasi spontaneamente approcciandosi a opere come Pompeo. E noi rispondiamo  che esso è un laboratorio, un panorama plurimo e corale, un assalto sensoriale, una sorta  di grande ecosistema che non si guarda semplicemente, ma si guada, si attraversa, con  smarrimento, perché il mondo evocato risulterà insostituibile e sfuggevole come lo è il  mondo reale.  

Dagli anni ’70 in poi, l’autobiografia diventa uno dei generi preponderanti nel fumetto.  Pensiamo a Maus di Spiegelman, LMVDM di Gipi, Persepolis di Satrapi, e al recente  Zerocalcare, fenomeno del webcomic poi addirittura vincitore di un Premio Strega. Perché,  rimane da chiedersi, questi artisti hanno scelto di disegnare la propria vita invece di  scriverla? Come sostiene lo stesso Spiegelman nella raccolta Breakdowns, attraverso il  fumetto “i ricordi possono essere giustapposti per fare da eco alla maniera in cui la mente  funziona”. Il fumetto evoca le immagini della memoria e consente la visualizzazione del  vissuto interiore. Scrivere la propria vita spesso non è sufficiente. Una vita infatti non si  scrive; si respira, si soffre e si percorre, semplicemente si vive, così come si vive una lunga  avventura tra mari e isole misteriose. Tentare di decodificare in scrittura questo panorama  eccessivo e rigoglioso risulta al massimo in un’istantanea parziale, in uno scatto  incorniciato, che esclude dalla composizione quel che ribolle oltre i limiti dell’osservazione.  Col fumetto invece, questi artisti lasciano libertà alla libertà stessa.  

Se con la scrittura, al fine di risultare comprensibili, si è obbligati a seguire una grammatica,  una direzione, una sequenzialità precisa, col fumetto si può rinunciare a tutto questo. Si  possono omettere i testi, cosa impensabile per un libro; si può scombinare l’ordine di  lettura, o lasciare libero il lettore di scegliere quello che più gradisce; si può spezzare la 

congruenza tra le vignette, al punto che due vignette accostate possono raccontare di due  momenti differenti, slegati tra loro. Lo sguardo che scorre tra i disegni vacilla, rimbalza,  torna indietro, scorge, scruta, accarezza le pennellate, i tratti, il dosaggio del colore,  riscopre, analizza, viene invaso da una gamma sensazionale di ispirazioni che, accatastate  così, quasi alla rinfusa, tramite pura intuizione, restituiscono un’imitazione del vivere  spesso abbagliante e assolutamente onesta.  

Anche la scrittura lascia certamente spazio a sperimentazioni (basti pensare ai classici di  Joyce o agli azzardi futuristi, anche ai libri game); ma non si può stravolgere la formula  scrittoria senza rivoluzionare completamente, al punto da renderlo irriconoscibile, il  mezzo attraverso cui viene al mondo. L’unità minima rimane il logos. Qual è invece l’unità  minima del fumetto? Non la griglia, non la vignetta, non la sequenzialità; non l’icona, che  può essere talmente rarefatta da sembrare una sbavatura sul foglio; forse la linea, il punto  e il piano, le forme geometriche fondamentali che rappresentano i fenomeni dell’universo.  Forse, invece, l’unità fondamentale del fumetto è semplicemente la pagina bianca, lo  spazio vuoto, immenso, da cui può sorgere qualsiasi panorama, qualsiasi visione, qualsiasi  sogno interiore. 


— Leonardo Albano —

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