Autobiografie impossibili – Charles Baudelaire

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Allora, lettore…che dico lettore…fratello mio, mio simile, sei ancora attaccato a quel putrido seno di quella sfatta troia? Godi ancora di neri, rinsecchiti rimessiticci proliferanti in vecchi angiporti che tu, ipocrita, che noi, ipocriti, chiamiamo semplici vizi? Invermigli ancora la tua vita debosciata di acrimonia, di bramosia e di mere lacrime che pensi giustifichino le tue azioni?
La noia ci assale costantemente, non è forse così? L’uomo, che misera bestia!
Eppure, dallo squallore che ci accomuna, io, poeta, tra laudano e alcol, mi elevo ad una condizione che tu, semplice mortale, non riesci nemmeno a comprendere. 
In alto, il principe dei nembi non ha significato, né importanza e poco ha a che fare con la tua gretta concezione del tempio dalle viventi colonne.
Seguimi, se riesci a tenere il passo, tra rimbalzi impazzati di simboli.

Paquebot des Mers du Sud.

È il mare che deforma il mio volto o questo specchio è fedele alla mia anima? 
Scappo dal terribile olezzo francese all’insegna del profumo esotico che mi attende oltre quella sottile linea che divide la prua da terre rare ricolme di ricchezze, riviere di regali pruriginosi. 
La mendacia parigina, pregna di livore e che s’appella al banale orpello, proseguiva macilenta, eppure, alacre e decisa, si stava impossessando di me.
Invece, da qui, già lontano, posso sentire i sapori verdi, rossi e gialli che solleticano la mia lingua e le mie papille gustative e si trovano lì, in India. Non vedo l’ora che quella linea venga solcata da questa nave, però l’oceano sembra non terminare mai. 
Non è l’immensità longitudinale, ma la profondità.
L’abisso che io guardo, l’abisso amaro su cui non riesco a posare i miei occhi poiché illimitato, mi costringe ad osservarmi tra i richiami delle onde della nave. L’unico che mi guarda è me stesso, la stessa persona a cui cedono le ginocchia, che si sente consunto, la cui pelle incartapecorisce senza la mendacia parigina. 
Sprofondo nell’abisso, ma non annego nel nero.
Mare, riconducimi a Parigi. Mare, riportami a casa.

Club des Hashischins.

Fumi si levano incontrollabili entro queste quattro mura che paiono essere innumerevoli. Pulviscolo di hashish e gocce di alcol che si crogiolano nell’aria viziata della maledizione più dolce e più grigia. E mentre parole confuse di poeti eminenti aleggiano, le mie iridi trasognate e consunte scorgono una derelitta fiamma pallida e bruna allo stesso momento. 
Questa si contorce, mi cinge i fianchi, il costato e sotto i miei baffi tremula un ghigno appena accennato, solleticato dal flebile tocco di quest’entità a me cara, molto cara.  
Due opali neri inseguono i miei lineamenti che scappano tra Senna e Loira; e mentre le mie gambe fuggono marmoree dallo sforzo, penso se davvero voglio fuggire da te, cacciatrice.
Mi fermo e una dolce ambascia che sfocia dall’occlusa gola, mi dà la conferma che sì, che mi arrendo a scrivere versi di luculliano amore che non mi si addice, per te, a una dama creola.

Arrondissements di Parigi.

Voi tutti, ubriacatevi. Vi consiglio il vino, la poesia e la libertà. Ma specialmente il vino. L’alcol mi scorre tra le vene mentre m’inoltro maldestramente tra le vie di Parigi, di casa mia, di tutto ciò che sono e voglio essere. L’unità sotto la quale noi tutti viviamo diventa brulla, non capite? Singhiozzo e vomito versi che mirano precisamente a quell’analogia, a quell’intricato incrocio tra significato e vita vera. 
In questo mondo, nel corpo della vita, molti scelgono il cuore: rivoltanti sentimenti che culminano nel patetico amore. Altri, appena più svegli, optano per il cervello: la logica e il freddo calcolare di cose futili, pedisseque bestie da soma. Io, vado più in là. Io mi faccio strada tra le sordide viscere dell’essere umano, nei sobborghi e nei bordelli io vedo il centro di tutto: il s’agit du spleen, mes chers lecteurs
La milza.
Perché se voi, ipocriti, scappate sempre dal marcio che viene covato dentro di voi, se vi voltate dall’altra parte sperando che non vi segua, che non vi tormenti e che vi lasci condurre un’esistenza che sia degna dell’appellativo “vita” mentre godete di tutto ciò che di consunto ha da offrirvi (come me, d’altronde), io ci vado incontro e l’abbraccio come un caro e vecchio amico; l’addento, mi pasco di ciò che mi offre, ma puttane, droga e alcol non mi liberano da quest’assuefazione. E l’immaginazione non basta, l’idéal pare essere una favola peggio di mille altre, una meschina illusione per trasognati debosciati, emaciata realtà remota.
Mi sono perso mentre blateravo con voi. Almeno, ho ancora questa bottiglia. Ho da poco passato il 13 di rue Hautefeuille, ma ancora fantasticavo sullo spleen. Odiosa sensazione di pesante vuoto, brulicanti vermi su tombe cupe, angoli soli di desueti salotti, re impotente di una landa grigia, coperchi soffocanti. 
Dove mi trovo? Sono smarrito tra le vie del mio stesso animo. I palazzi parigini si ripetono ancora e ancora e risa forzate echeggiano ancora e ancora. Chissà cosa succede quando tornano a casa, nelle tenebre, circondati da loro stessi e dalla consapevolezza di essere vivi, che fine fanno le risate, che fine facciamo noi, che fine fa la vita. Io, poeta, non lo so, come pretendete di saperlo voi, mortali? Volo nel cielo, ma non vedo oltre i cirri più alti, non riesco a respirare lì.
Qui c’è troppa luce, rischia di infiltrarsi nelle borse dei miei occhi. Barcollo più lontano, al di là della Senna, verso gli arrondissements perimetrali, magari il quattordicesimo.
Esiste come esisto io un modo per scaraventare via questo insito nero, per mandarlo via? Tutto ciò che offre, fa sprofondare, ficcato, claustrofobico in un mondo così ampio: annego nell’alcol, vado in fumo nell’hashish e soffoco tra le braccia di una donna.
Cammino a testa bassa, inciampo, bevo, metto i piedi storti e mentre cogito e ripenso alla soluzione, al cammino, per me, per noi, lettori; e ritrovo la mia testa riaffiorare dopo molto che marciavo nella mia città…

Cimitero di Montparnasse.

…ô mon beau Paris, tu sais toujours où amener nous tous, âmes perdues.

– Sebastiano Giovanetti –

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