“D’estate davanti alla porta aperta pendevano lunghi fili di perle di legno che oscillavano al vento, se c’era, altrimenti facevano un piccolo rumore dondolante quando si toccavano come un fremito che si propagava lentamente lungo i fili”.
È la bottega di vini e liquori del signor Giacomini che si affaccia sulla padovana piazzetta del Tribunale e quel “piccolo rumore dondolante” si è fatto titolo per l’ultimo, intenso romanzo di Antonia Arslan, terzo della saga armena e familiare dopo La masseria delle allodole e La strada di Smirne.
Italianissimo ed esplicitamente autobiografico il romanzo di Antonia Arslan, con l’immagine di nonno Yerwant (col quale la Bambina protagonista stringe alleanza eterna durante una notte di bombardamenti: dimenticata da tutti ma sicura tra le braccia del vecchio: “io capii che mi aveva riconosciuto e accettato”, un battesimo, una iniziazione, una prova del DNA) proiettata sullo sfondo. Ma non a dominare. Nella bottega del signor Giacomini si vendono paste dolci che sono di “dubbia qualità”: parola di mamma Vittoria, la cui figura si staglia nettissima fin dalle prime pagine e, anche quando passa in seconda fila, continua a tenere le fila, a fornire tessuto connettivo al fluire della memoria.
Nessuno resiste a Vittoria. Bellissima. “La Bambina non può credere che la sua splendida, bellissima e capricciosa mamma possa mai essere stata brutta”. Viene da “un ceppo robusto di agricoltori del Basso Polesine” e detiene un privilegio (o un limite?) “neanche una goccia di sangue armeno le scorreva nelle vene. Non era colpevole per il solo fatto di esistere… non doveva fare i conti con quella voragine profondissima che nessuna gentilezza veneta era mai riuscita a sanare”. Confrontandosi con questo alter ego, la Bambina cresce. E apprende e conosce perché si trova all’intersezione di due circonferenze, quella tracciata attorno a Vittoria e quella che, attraverso nonno Yerwant, grande affabulatore e tenace anello di catena con le origini, la collega alla sua armenità. La Bambina conosce la morte (“la prima volta che sente la morte come un’offesa personale che la riguarda”) e fa di ogni lacerto dell’esistenza un tesoro da conservare e a cui attingere, seppur a intervalli di tempo.
“Ho chiuso tutto in un grande cassetto e l’ho chiuso a chiave. Ma ogni tanto, ogni tanto bisogna riaprirlo”.
Libro di grande respiro, ma anche venetissimo il romanzo di Antonia Arslan. C’è una parola veneta, del resto, che ne descrive l’azione sul lettore. Le perle di legno furegano nell’anima. Da leggere. Con un consiglio per i lettori spericolati, non quelli che “ma mi rovino il libro”: cominciare dall’ultimo capitolo, una sinfonia dedicata alla lettura. Apprendere l’immaginario della Bambina, accostarlo alle narrazioni di Yerwant.
Gian Domenico Mazzocato