I racconti vincitori del Contest 2023 “Scritture in movimento, scrittori per un giorno”

Strepitoso successo anche alla seconda edizione del Contest di scrittura per studenti “Scritture in movimento, scrittori per un giorno” tenutosi durante la scorsa edizione di CartaCarbone Festival.

Duecento ragazzi e ragazze delle scuole superiori hanno trascorso la mattina a scrivere un racconto, la domenica del Festival, che una giuria tecnica e una giuria popolare han poi valutato e votato.
Cinque giovani finaliste, vincitrici del nostro concorso “Scritture in movimento, scrittori per un giorno” sono state premiate, poi, in Loggia dei Cavalieri, emozionate e incredibilmente meritevoli.

Quanta bellezza in questi ragazzi e ragazze che con la loro creatività fanno brillare le parole.

Ecco i primi 5 classificati:

  • 1 – Sofia Roverso – Liceo scientifico Leonardo Da Vinci (Treviso)
  • 2 – Sofia Facchin – Liceo scientifico statale Giuseppe Berto (Mogliano Veneto)
  • 3 – Aurora Beraldo – Liceo classico Giorgione (Castelfranco Veneto)
  • 4 – Ia Caligaris – Liceo Antonio Canova (Treviso)
  • 5 – Mariasole Martini – Liceo Antonio Canova (Treviso)


Ed ecco i premiati dal 6° posto al 10° posto a parimerito:

  • Vittoria Cavezzan – Liceo Classico statale Antonio Canova (Treviso)
  • Jasmine Giacomini – LSSA Max Planck (Treviso)
  • Caterina Pavan – Liceo Classico statale Antonio Canova (Treviso)
  • Giulia Benetton – LSSA Max Planck (Treviso)
  • Virginia Marchioro – IIs Giovanni Valle (Padova)

E finalmente ecco di seguito i 10 racconti selezionati. Buona lettura!

Primo classificato

Sofia Roverso (Liceo Scientifico Leonardo da Vinci)

“Se stressato dal suo lavoro, se voleva trovare l’ispirazione per i suoi dipinti oppure se voleva rimanere un po’ da solo veniva sempre da me. Era un uomo umile, basso di statura e con sempre addosso il vecchio cappello di suo padre. Sotto la mia folta chioma si sentiva al sicuro. Anche quando le temperature si abbassavano lui veniva ogni pomeriggio da me. Ai piedi di una quercia. Ai piedi della sua quercia. Arrivava con la sua bicicletta che aveva sempre desiderato e che dopo tanti sacrifici era finalmente riuscito ad ottenere. L’appoggiava al mio tronco e sedutosi tra le radici mi raccontava tutto delle sue giornate. Da quando però è cominciata la guerra il paesaggio intorno a me era cambiato: tutti erano improvvisamente più tesi e in paese erano rimasti solo anziani, bambini e donne. Ma lui non perdeva mai il nostro incontro quotidiano. Un giorno però sentii che qualcosa non andava, lo vedevo preoccupato. Prima di andarsene via decise di fare una passeggiata fino al torrente e lasciò la bicicletta appoggiata su di me. Da quel momento non lo vidi più. Non fece più ritorno dal torrente. Di lui mi resta solo la sua bici che con il passare degli anni diventò parte di me. Persi pure la compagnia delle mie sorelle, rimasi sola sulla collina con l’unico ricordo del mio migliore amico dentro di me. Da quando sono state uccise io divenni conosciuta in tutto il mondo. Ogni giorno vengono persone diverse per fotografarmi e conoscere la mia storia. Se non fosse stato per quella bici magari adesso sarei potuta essere il foglio dove questa storia è stata appena letta.”


Secondo classificato

Sofia Facchin (Liceo scientifico statale Giuseppe Berto)

Sola, io.
Sola in un prato
che mi avvolge
come le stelle
avvolgono la luna.
Io, quercia dentro
e ciliegio fuori,
un giorno sboccerò
e crescerò un fusto
resistente alla tempesta,
ai fulmini,
alla siccità.
Ma ora sono
solamente un virgulto,
fragile.
In una foresta di querce
io, sola.
Sola fui innestata
e sola
sarò abbattuta.
Sotto il cielo,
sopra la terra
il mio cuore pulsa,
le mie paure
mi terrorizzano
e le mie gioie
mi fortificano.
Io, quercia dentro
e ciliegio fuori,
nutrita dalla luce
del sole, 
troverò pace
nelle difficoltà.
E quando verrà
il tramonto
tornerò vulnerabile,
io, sola.


Terzo classificato

Aurora Beraldo (Liceo Classico Giorgione di Castelfranco Veneto)

Ricordo d’essere stato un semplice ramoscello, piantato accanto ad un corso d’acqua. Ero sottile, delicato, ma con me c’era sempre quel ragazzino dai capelli biondi, colore del fieno. Non era uno qualsiasi, aveva qualcosa di speciale, magico. Avevamo una sintonia particolare. Era come me, fragile, solo, indifeso. Nelle giornate di pioggia lui era con me. Mi legava a un bastoncino di bambù e mi rassicurava, mi diceva che ce l’avrei fatta. Avrei voluto dirgli che non gli credevo, ma non potevo farlo e perciò mi limitavo ad accarezzarlo con le mie piccole foglie. Gli anni passavano e quel ragazzo tornava sempre. Si prendeva cura di me e non capivo perché. Crescevamo entrambi ed io ero diventato forte, un grande salice, i miei rami sfioravano l’acqua scintillante del ruscello. Ma un giorno acqua e vento litigarono e crearono la tempesta, urlavano, piangevano. Fulmini, grandine, turbini. Caddi a terra. Il giorno successivo, l’acqua sembrava scorrere più lentamente e mi sussurrava parole col suo scroscio. Io aspettavo quel ragazzo, ma non venne; e non si presentò nemmeno le settimane, i mesi successivi. Cominciai a rialzarmi da solo. Dopo qualche anno, tornarono i cinguettii e la vita tra i miei rami. Vivevo rigoglioso ma mi mancava qualcosa. Arrivò un mattino: i raggi del sole si infiltravano tra le foglie e le ninfee che galleggiavano sulla superficie del ruscello iniziavano ad aprire i loro boccioli rosati, soffiava una leggera brezza e si avvicinava un anziano uomo col suo bastone e si appoggiò proprio lì, dove portavo i segni della caduta. “Sapevo che ce l’avresti fatta” disse “ora non hai più bisogno del bastoncino di bambù, serve a me! Caro salice mio, siamo un ciclo di vita e morte, di stasi e nuovo inizio e il mio è giunto al termine “. Non conobbi mai il suo nome, né lo rividi mai più ma vissi per altri cent’anni per lui, col suo ricordo e la forza che mi aveva donato e l’immagine di lui che si allontanava lentamente.


Quarto classificato

Ia Caligaris (Liceo statale Antonio Canova)

Dovrei essere triste nella mia solitudine, ma il mondo è così bello da quassù. Ho radici su di una montagna lontana e non ho nessuno con cui condividere l’esistenza, nessuno con cui passare il freddo inverno e nessuno con cui rallegrarmi della gioiosa primavera; eppure il sole sorge ogni giorno, delicatamente accompagnato dall’ alba, e il mondo sotto di me si sveglia; la brezza mattutina smuove le mie foglie e il vento autunnale le fa volare via e le conduce in luoghi dove non sono mai stato e mai starò. Oh! Quant’ è splendido il piccolo golfo, quanto magnifiche le montagne che lo circondano, quanto amati i suoi abitanti!  E ogni notte giunge il crepuscolo e migliaia di luci adornano l’insenatura, simili a lucciole e appaiono le stelle e la maestosa luna.              
Non è forse vero che, come recitavano i versi di una poesia lontana, arrivata alle mie radici per caso, che caro all’ uomo il silenzio, e la quiete che pacifica l’ anima di quel colle isolato e di quella siepe, oltre la quale si scaglia l’infinito? Io da qui godo della perfezione della natura e della sottilissima differenza che c’è tra finito e infinito.                 
Mi staglio, solo, nessun fiore o arbusto con cui vivere, eppure le stelle continuano a brillare, il vento a soffiare, gli esseri umani nascono e muoiono e domani, di nuovo, sorgerà il sole.                                                     
Come potrei mai essere triste, quando il mondo è così bello da quassù? 


Quinto Classificato

Mariasole Martini (Liceo statale Antonio Canova)

“Polmoni vuoti e membra stanche, in te non è rimasto nulla del fuscello verde che ricordo io. Quintali di catrame di seconda mano in gola, veleno nelle vene ed un aspice in seno: che cosa è successo a quel tuo corpo così inquinato? Io ti rammento come una furia, una di quelle greche, le Erinni, come una bambina arrabbiata col mondo e che, pur di entrare nella gabbia che si era costruita, si strappava le proprie foglie. Tu non sei la stessa ragazzina che conosco io, lei era sempre docile e brava, soffrendo in silenzio mentre l’universo attorno a lei andava avanti imperterrito. Tu chi sei dunque? Da dove vieni?
Anzi, no, perché sei cambiata? Così tu non mi piaci. La tua chioma è rigogliosa, i tuoi rami si stagliano alti nel cielo ed il tuo tronco è cresciuto male, terribilmente storto, ma tu caparbia fiorisci ancora.
Così tu non mi piaci. Hai fatto delle mie insicurezze il tuo vanto, le tue radici e del mio accrocco di ramaglie i tuoi fiori. Per quanto hai ancora intenzione di continuare così? Prima o poi la tua primavera cederà il passo all’estate, e così anche al mesto autunno e all’inverno: le tue foglie presto cadranno e di te rimarrà solo un guscio secco e vuoto, la nuda e fragile verità del tuo cielo senza stelle. La tua farsa finisce così, quindi torna da me ora. La tua gabbia è diventata desolata da quando sei fuggita.”
“Tu non preoccuparti per me, così sventurato da amarti ancora: come potrei mai odiare quella piccola bambina arrabbiata col mondo con cui ora non condivido nient’altro che il nome, il mio passato? Non angosciarti per me, tu che un giorno crescerai abbastanza da salutare le nuvole con le tue fronde e da non vacillare più all’arrivo dell’inverno, poiché il tuo amore è più forte.
Cresci ed amati, mio piccolo fiore. La tua storia non è ancora finita.”


Premiati dal 6 al 10 a parimerito

Vittoria Cavezzan (Liceo Classico statale Antonio Canova Treviso)

Siamo centinaia, forse migliaia; ci chiamano pini, pioppi, arbusti… 
Abitiamo sparsi per tutta la regione, dal mare alle colline. Viviamo il secco caldo estivo e la dolce brezza marina, e sentiamo di tanto in tanto l’eco delle voci di Scilla e Cariddi, quelle dei marinai. 
L’unico fuoco che abbiamo mai conosciuto è quello delle pire, alti e ardenti, accompagnate dai pianti delle donne. Nessuno ci ha mai fatto del male. 
Gli uomini con cui condividiamo la nostra terra si chiamavano greci e vivevano in armonia con noi, con il mare. Erano buoni, riconoscenti, e così noi con loro. 
Con il tempo, però, il nostro rapporto si è incrinato, forse li abbiamo offesi in qualche modo? Qualcosa in loro è cambiato: la loro lingua, le abitudini. 
Questi greci, che solevano ringraziare gli dei per il legno delle navi concave, ora ci ardono, scaricano rifiuti tossici nei nostri letti e ci soffocano. Non dialogico più con gli uomini, essi non ci parlano. Il fuoco brucia il nostro legno e il fuoco acceca i nostri occhi. Molti di noi muoiono chiedendo pietà tra le fiamme. Non li comprendo questi greci: prima ci amavano, perché ora ci odiano? 


Jasmine Giacomini (LSSA Max Planck Treviso)

Sono qui, immerso in questo mondo che poco mi appartiene.
Non ho scelto dove vivere e nemmeno come vivere ma ho scelto la cosa più importante: il modo in cui vedere la vita.
Sono quell’albero definito “un albero qualunque” da una persona qualunque, sono un albero che ti guarda senza far rumore, legge tra la luce dei tuoi sguardi, comunica con te senza disturbare i tuoi pensieri ma dandogli forma e pensare che alla fine sono davvero solo un albero; ogni giorno accetto di essere definito così , accetto di essere al tuo fianco o davanti a te con la consapevolezza che tu pensi non possa capire ciò che provi, ma il tuo pensiero è un linguaggio espressivo che forse solo con me vuoi condividere.
Io sono quella “persona” che hai cercato di poeticizzare quando per liberare i tuoi pensieri, sei sparito dentro un varco e lo hai sentito cantare.
Non ci hai fatto caso perché non mi hai riconosciuto stavi già creando un parallelismo tra la mia e la tua vita.
Mi domando spesso perché vieni sotto le mie foglie e forse una risposta in quel libro dei perché me la sono data.
Sono la retta a te coincidente, sono quella cosa venuta dal cielo in terra a miracol mostrare, come Beatrice per Dante o quel rifugio perfetto come lo era Cleopatra per Marco Antonio.


Caterina Pavan (Liceo Classico statale Antonio Canova – Treviso)

A casa mia è tradizione piantare un albero per ogni nuovo nato, così è stato per i miei genitori, così è stato anche per me.
Qualche volta provo a immaginare come sia dover accettare la tempesta e il sole cocente senza alcuna possibilità di riparo, come ci si possa sentire ad accogliere chiunque sotto le proprie fronde. Se fossi un albero sarei un po’ come il mio pitosforo, con le radici saldamente ancorate al terreno fertile e buono che i miei genitori hanno curato per lui. Come me porta i segni dei bivi superati, si è curvato spesso a destra e a sinistra in questi anni, riflettendo sulla direzione da prendere. In questo momento sembra piegato dallo sforzo, teso con tutte le forze verso la fetta di cielo che ha deciso di conquistare. Il tronco è snello e dinamico, difficile trovare la posizione giusta per adattarsi alle sue forme, non c’è lo spazio per sostenere troppe schiene. D’altro canto le fronde si allargano come un enorme ombrello, fitte verdi offrono ampia protezione. Il pitosforo ascolta qualunque confessione, paziente e silenzioso, regalando il profumo limpido e incisivo che ha maturato negli anni. I fiori piccoli e gialli alloggiano per due stagioni tra le foglie a mandorla, non si nascondono, ma si stringono a grappolo sui rami, un po’ come opinioni, volti a formare una distesa vivace e coerente.
Le foglie poi sono fatte per la pioggia e il vento, come se qualcuno avesse passato una mano di cera su quella superficie venosa. Ascoltano i rivoli umidi che la pioggia disegna sulla loro pagina affinché le radici imparino il segreto di ogni acquazzone.
Il pitosforo cresce, osserva e fiorisce.


Giulia Benetton (LSSA Max Planck – Treviso)

Radici, gusto, foglie e fiori. Questo è tutto quello che sono. Un piccolo ed esile abete rosso. Quando ero giovane vivevo in campagna. Era il posto più bello al mondo. Ogni mattina il soave canto degli uccellini mi svegliava dolcemente. Il delicato profumo dei fiori inebriava la mia chioma. Sentivo in lontananza lo scroscio di una piccola cascata che rendeva la terra fertile e mi offriva nutrimento. Sentivo gli scoiattoli correre con le loro zampette sui miei rami. Questo paradiso era la mia vita e non potevo chiedere di meglio. tutto filava liscio fono a che un giorno degli strani uomini che indossavano una strana tuta nera vennero nella mia adorata campagna e iniziarono a parlare tra di loro. Pronunciavano frasi che non comprendevo, dal loro tono sembravano quasi contenti ma sentivo un filo di crudeltà nelle loro parole. Fecero un giro tra gli alberi miei amici e con uno starno strumento che spruzzava un colore acceso fecero una croce su un albero vicino a me. Al termine se ne andarono. Non diedi importanza a ciò che avevano fatto e continua a vivere spensierato. La mia tranquillità venne in  frantumi quando, dopo un breve periodo, quei due strani uomini tornarono, stavolta non edùrrano soli: avevano con loro un piccolo attrezzo con tanti piccoli dentini. Lo azionarono e questi cominciarono a girare rapidamente si avvicinarono all’albero contrassegnato in precedenza. Non capivo cosa stessero facendo fino a quando senti l’albero urlare per il dolore. Gli uomini non poterono percepire le sue urla di sofferenza ma solamente il suo tonfo.ad un tratto tutti i rumori cessarono e nella campagna rimbombò il rumore del tronco a terra. Tacè. Non più un uccello che cantava, uno scoiatolo che si muoveva, una singola farfalla che volava. Erano talmente euforici che continuarono con altri alberi. Nella mia testa rimbombarono solamente le loro grida disperate. Finalmente questo incubo cessò e gli uomini se ne andarono. La mia vita riprese ma tutto era diverso. La campagna era cambiata. Gli animali erano cambiati. Soprattutto io ero cambiato. Quelle grida non facevano altro che riecheggiare nella mia mente. Quella incantevole campagna si stava trasformando troppo velocemente. È passato molto tempo da questo episodio e ora sono un grande e anziano abete rosso. Vivo al centro di una grande città e ho perso tutti i miei amici. Ogni mattina lo strombettio delle automobili mi sveglia. l’odore di gasolio riempie le mie foglie e sento in lontananza il chiacchiericcio della gente. I dolci ricordi della mia infanzia allietano la mia vecchiaia mentre aspetto la mia fine.


Virginia Marchioro (IIs Giovanni Valle)

Connesso

Sono qui, ma nessuno mi sente realmente, io invece percepisco ogni sensazione. Nessuno mi ha mai dato un nome e nessuno si è mai interessato realmente a me. Tutti mi vedono, facile vedere con l’occhio, ma non mi sentono con l’anima, va oltre la conoscenza umana.
Sono qui, incastonato nel terreno secco, eppure mi riconosco in tutto il resto. Il vento sovrasta la mia chioma e fa cadere pezzi di me, foglie, ormai rinsecchite e consumate che restano ugualmente parte di ogni cosa. Il sole mi scalda e la luce di questo passa attraverso i miei rami creando spiragli luminosi.
Le gocce di acqua causate dal temporale della sera prima, sono appoggiate du dime e rimbombano su tutto il mio corpo rilasciando freschezza.
Percepisco gli esseri viventi e il loro calore interno.
Loro parlano a suoni, io comunico in silenzio.
Sento ogni vibrazione e la faccio parte di me, parte della connessione che mi caratterizza.
Sono vivo in mezzo al tutto ma solo e incapace di farlo capire.
Sono qui, ma nessuno mi sente realmente.


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